Per buona parte di noi europei, Ecuador significa bancarelle con maglioni, magliette e cuffie variopinte, che affiancano quelle di miele, formaggelle e salumi nostrani alle feste campestri. Oppure minute signore in abiti tradizionali andini, con bimbo accanto, che intrattengono musicalmente gli automobilisti alle casse degli autosili. Il più delle volte le corde del loro charango, così come quelle vocali, non al top dell’intonazione. Ciò nonostante spesso ci lasciamo intenerire e facciamo scivolare qualche monetina nella cuffia appoggiata al suolo. In un’epoca in cui aumenta l’intolleranza razziale, i piccoli campesinos ecuadoriani riescono ancora a raccogliere un po’ della nostra solidarietà e della nostra empatia. Magari con un pizzico di supponenza o di senso di superiorità da parte nostra.
In queste ultime settimane il paese latinoamericano è balzato agli onori delle cronache, sportive e non, grazie a un suo cittadino che, in pochi giorni, è assurto a ruolo di eroe nazionale. Richard Carapaz, 26enne di El Carmelo, nella regione del Carchi, a pochi chilometri dal confine con la Colombia, a oltre 3000 metri di altitudine, era stato lo scorso anno il primo ecuadoriano a vincere una tappa al Giro d’Italia.
Quest’anno lo scalatore che veste la maglia della spagnola Movistar si è superato. Di tappe ne ha vinte due, e si è aggiudicato anche la classifica finale della corsa rosa. Il presidente dell’Ecuador, Lenin Moreno, leader dello schieramento di sinistra, ha pubblicamente magnificato le imprese di questo giovane campione, figlio di umili contadini di montagna, che ha contribuito a illuminare l’immagine del paese nel mondo. Lo ha soprannominato «La locomotora del Carchi», e al rientro in patria gli ha tributato gli onori che di solito spettano a un autentico eroe di guerra.
Qualcuno in Occidente potrebbe stupirsi e gridare al miracolo. In realtà, il trionfo di Richard Carapaz rientra in un processo di mondializzazione e di democratizzazione del ciclismo in atto da alcuni decenni. Un processo fortemente voluto dall’olandese Hein Verbruggen, presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale dal 1991 al 2005. Dubito che avesse finalità filantropiche, quanto piuttosto l’idea di ampliare il bacino dei praticanti e dei paesi connessi con il mondo del pedale, in modo da accrescere il mercato, l’indotto e la forza del ciclismo nei confronti delle TV, in materia di diritti di diffusione degli eventi.
Gli obiettivi sono stati parzialmente raggiunti, anche se la forza finanziaria del ciclismo non si è sviluppata come avrebbero desiderato Verbruggen e i suoi successori. L’arrivo, negli anni Novanta, dei corridori dell’ex blocco sovietico, è semplicemente figlio delle vicende politiche dell’epoca, quando dal dilettantismo di Stato si è potuti passare al professionismo e al libero mercato anche in ambito sportivo.
A ondate successive sono arrivati in seguito: australiani, britannici, statunitensi e canadesi, i quali hanno semplicemente realizzato che il ciclismo, oltre alla pista, contempla anche la strada, e che, nonostante i vari scandali per doping dei due decenni passati, può essere un eccellente veicolo promozionale.
Stiamo parlando ad ogni modo di paesi con una lunga e solida tradizione sportiva. Nell’ultimo decennio è stata sdoganata definitivamente anche la presenza in gruppo di corridori provenienti da paesi ciclisticamente esotici. Ji Cheng è stato il primo cinese a partecipare e a concludere Giro, Tour e Vuelta, tra il 2012 e il 2015. Prima di lui, nel 2009, Fumiyuki Beppu e Yukiya Arashiro erano stati i primi giapponesi a portare a termine la Grande Boucle. Il tutto in attesa degli africani che, ormai invincibili nella corsa a piedi, una volta colmato il gap tecnologico e finanziario, potrebbero cominciare a dominare anche nel ciclismo.
Nel frattempo, la Dimension Data-Qhubeka, squadra sudafricana iscritta al World Tour, sta distribuendo attraverso una fondazione migliaia di biciclette ai bambini che abitano lontano dalla scuola. Un discorso a parte lo merita l’America Latina, soprattutto quella dei paesi andini, autentica palestra naturale che sta sfornando una generazione di fenomeni. Il numero dei corridori colombiani eccellenti sta dilagando negli ultimi anni. Dopo l’epoca di Lucho Herrera, sono giunti eccellenti cronoman come Santiago Botero, campione del mondo; quindi la generazione di Nairo Quintana, vincitore di Giro e Vuelta, più volte sul podio al Tour; infine giovani astri come Egan Bernal, Miguel Angel Lopez ed Esteban Chaves, oltre a Fernando Gaviria, il quale ha dimostrato che i colombiani possono essere anche degli straordinari velocisti, tanto in pista, quanto sulla strada.
Insomma, roba da fare invidia ai paesi tradizionalmente egemoni, fra i quali la Svizzera. È un ciclismo in controtendenza. In un cosmo in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, il mondo del pedale ridistribuisce corse, risorse e onori sull’intero pianeta. Magari qualcuno vorrebbe qualche trionfo svizzero, italiano, belga od olandese in più, tuttavia il fatto che un fenomeno eticamente contestato come il ciclismo possa appiccicarsi al petto la medaglia della democratizzazione non è poi così male.