Le ricerche più recenti, realizzate nei laboratori delle principali università americane, indicano che parlare poco e con scarsa attenzione ai bambini può avere conseguenze negative sul lungo periodo, dai risultati scolastici a quelli lavorativi. È importante interagire a parole, nel corso della giornata, anche con i neonati e i bimbi di pochi mesi, nonostante, in assenza di una risposta verbale, sembri non esserci un vero scambio. Si tratta di una percezione fuorviante: i bambini rispondono a loro modo, con sguardi, versi e gesti.
Rachel Romeo, neuroscienziata e patologa del linguaggio al Boston Children’s Hospital, ha monitorato un campione di ottanta bambini, sottoponendoli a test, scanner cerebrali e registrazioni, per controllare la quantità di parole ascoltate quotidianamente. Per il suo studio ha considerato la celebre indagine degli anni Novanta, secondo la quale chi nasce e cresce in famiglie poco acculturate e con scarsa disponibilità economica sentirebbe, fino all’età di tre anni, trenta milioni di parole in meno di chi vive in ambienti più colti e ricchi. Romeo e il suo team hanno verificato che il divario causato dallo status familiare è minore di quello ipotizzato in passato, dato che la differenza è tra le mille e le diecimila parole al giorno. La vera scoperta, però, è stata un’altra. In un’intervista all’istituto americano Child Trends, Romeo ha detto: «Abbiamo capito che non è la quantità di parole ascoltate a incidere sullo sviluppo cerebrale dei bambini, ma le conversazioni». A rivelarsi decisivo, quindi, è lo scambio che avviene tra genitori – oppure tra gli adulti incaricati della cura – e figli.
Le interazioni create dalle conversazioni hanno benefici visibili e sono trasversali alle classi sociali. Chi è coinvolto in colloqui regolari dimostra, nel tempo, migliori capacità di comprensione e connessioni più forti nella sostanza bianca del cervello, nell’emisfero sinistro. «L’età cruciale per il linguaggio è tra gli zero e i cinque anni. I bambini sono come spugne, assorbono tutto, hanno milioni di sinapsi che si stanno creando. Nuove ricerche indicano, addirittura, che i primi due anni sono basilari. Questo, chiaramente, non significa che, quando si arriva ai tre o quattro anni, si può lasciare perdere. Il linguaggio è importante perché è la base della comunicazione, rappresenta le nostre fondamenta come specie, è così che esprimiamo i nostri bisogni e i desideri».
L’interazione è la chiave per assecondare lo sviluppo anche secondo le analisi del Princeton Baby Lab, in New Jersey. Attraverso scanner cerebrali, è stato rilevato che, mentre i bambini sono coinvolti in attività in compagnia di qualcuno, ad esempio leggere oppure cantare insieme, «i loro schemi di attivazione funzionale iniziano a convergere». In altre parole, per usare un’immagine dal mondo della musica, è come se i cervelli di chi svolge l’attività in compagnia si «accordassero». Quando le attività tornano separate, e i bimbi giocano da soli, la «sincronia neuronale» scompare. Elise Piazza, ricercatrice del Princeton Baby Lab, ha spiegato alla BBC che «si diventa così sintonizzati che non si funziona come due persone distinte, ma come una sola».
Conversare con i figli è decisivo anche secondo Kathy Hirsh-Pasek, a capo dell’Infant Language Laboratory alla Temple University di Philadelphia, e autrice bestseller di diversi saggi. Il suo ultimo libro è Becoming Brilliant: What Science Tells Us About Raising Successful Children (Diventare geniali: cosa ci dice la scienza per crescere bambini realizzati), pubblicato nel 2016 dall’Associazione degli psicologi americani. In un’intervista al Simms Mann Institute ha spiegato: «I neonati sono pronti al linguaggio. A due giorni dalla nascita sanno distinguere la voce della madre da quella degli altri. E possono imparare le prime parole già dai sei mesi. Per sviluppare il linguaggio, per costruire le connessioni di cui hanno bisogno per parlare e successivamente per leggere, devono sentire molte parole e partecipare a tante conversazioni. Esattamente nello stesso modo in cui hanno bisogno di cibo per crescere».
È importante l’interazione dal vivo, perché non si ha la stessa risposta con i dispositivi elettronici e la televisione. Secondo Hirsh-Pasek il linguaggio è come una danza, la comunicazione è un ballo tra due persone. Non conta soltanto la quantità di parole, ma la complessità del senso dei discorsi, la fluidità della conversazione, fatta di gesti e parole, e la routine.
Si può pensare al dialogo con i bimbi come se fosse una partita a ping-pong: si parla, si attende che il piccolo risponda (anche con un verso oppure un gesto) – magari bisogna aspettare un po’ senza perdere la pazienza e senza anticiparlo – e si deve rilanciare nei tempi consueti di una conversazione, quindi entro due secondi. Così per almeno quattro scambi. Basta qualche minuto al giorno in cui si focalizza sul bambino completamente, parlandogli come se fosse la persona più importante del mondo.
Il consiglio di Hirsh-Pasek è di guardarsi attorno, anche quando si è presi dalla frenesia della giornata, lasciandosi stupire da qualcosa che dia avvio alla chiacchierata. Oppure, si può partire da quello che cattura l’interesse del bambino o della bambina. Le raccomandazioni sono di guardarlo negli occhi, senza lasciarsi continuamente distrarre dallo schermo del telefono o di qualche altro dispositivo elettronico. Consigli che sembrano banali, ma che forse non lo sono se, in Gran Bretagna, il governo ha lanciato un progetto online per incoraggiare i genitori a parlare di più ai figli. La campagna si intitola «Hungry Little Minds» (Piccole menti affamate) e intende sollecitare le famiglie «a intraprendere attività che supportino l’apprendimento fin dalla tenera età, per preparare alla scuola e oltre».