Corro anch’io, sì, tu sì

Sport - Due storie di doping, quelle della maratoneta francese Clémence Calvin e del ciclista colombiano Jarlinson Pantano, sono così diverse da far venire i crampi
/ 29.04.2019
di Giancarlo Dionisio

Un atleta che fa parte dei quadri nazionali, sin dalle categorie giovanili, deve sottostare a una rigida serie di norme antidoping. Ad esempio, oltre a prestare un’attenzione assolutamente maniacale quando assume dei farmaci per una normalissima laringite o per altre banali malattie, deve annunciare, a chi si occupa dei controlli antidoping nella sua federazione, ogni spostamento, per consentire, ai cosiddetti «succhiasangue», di rintracciarlo per verificare se, in una fase di allenamento, sta barando o meno.

È, infatti, assodato che da oltre un decennio chi truffa viene pizzicato prevalentemente fuori corsa. Chi è quel fessacchiotto che, con le attuali norme in vigore, commetterebbe l’imprudenza di doparsi il giorno prima di una gara? Persino le microdosi di eritropoietina hanno tempi di smaltimento tali da porre a rischio l’atleta che viene controllato subito prima o subito dopo l’evento agonistico. Ultimamente solo gli ingenui ci cascano, e il più delle volte si tratta di pesci mediopiccoli.

Per tornare al concetto di reperibilità quasi totale (dalle sei di mattina alle dieci di sera) va detto che, se, tu corridore, annunci che andrai nel pomeriggio a fare delle ripetute tra Gravesano e Arosio, e all’ultimo momento ti ricordi del compleanno di nonna Maria a Casa Serena, puoi cambiare programma, ci mancherebbe altro, ma lo devi tempestivamente annunciare, altrimenti l’eventuale visita a vuoto dei controllori sul tuo terreno d’allenamento, equivale a un cartellino giallo per sottrazione al test antidoping. Al terzo ammonimento scatta la squalifica e ti becchi due anni di sospensione, esattamente come se tu ti fossi dopato, anche se magari sei semplicemente un ragazzo distratto che viaggia a pane e acqua.

In queste ultime settimane, si è scritto e parlato molto del caso di Clémence Calvin. La maratoneta francese, durante un recente campo di allenamento in Marocco, accompagnata dal marito-allenatore Samir Dahmani, ha modificato per tredici volte in quindici giorni il luogo di reperibilità nel sistema Adams, il software che gestisce la relazione tra controllato e controllore. L’agenzia antidoping francese sostiene di possedere elementi sufficienti per bloccare la Calvin, fino all’arrivo dei risultati del procedimento disciplinare aperto sul suo conto.

Invece, il Consiglio di Stato della Repubblica francese, che funge da consulente del governo in materia giuridica e amministrativa, ha concesso all’atleta di partecipare alla maratona di Parigi del 14 aprile. Ebbene, Clémence Calvin non l’ha vinta. È stata preceduta da 3 ragazze etiopi, tuttavia il suo amaro quarto posto, a soli 4” dal podio, è stato addolcito dal nuovo record francese, migliorato il precedente primato di 41”, e costituisce pure il nuovo limite stagionale europeo. Come dire che lo stage di allenamento in Marocco ha prodotto degli ottimi frutti.

Sempre negli scorsi giorni è scoppiato anche il caso Jarlinson Pantano. Il corridore ciclista della Trek-Segafredo è risultato positivo all’EPO in un controllo effettuato a sorpresa il 26 febbraio. Lo scalatore colombiano si era distinto nel 2016 vincendo una tappa al Tour de Suisse, a Davos, e una al Tour de France, a Culoz, oltre che per essere stato un ottimo gregario di Alberto Contador durante l’ultimo scampolo di carriera dell’asso madrileno. Le due storie, di Clémence e Jarlinson, sono tuttavia emblematiche di come nello sport non ci siano né linee guida, né unità d’intenti in materia di doping.

Ogni paese, ogni federazione ha il proprio ordinamento. Ogni squadra reagisce secondo i propri principi etici, mentre l’Agenzia Mondiale Antidoping si rode il fegato per manifesta impotenza. La Calvin, infatti, ha potuto correre la maratona di Parigi, mentre Pantano è stato immediatamente sospeso dal suo team, in attesa delle controanalisi. Il corridore, reduce da un periodo travagliato, caratterizzato da mononucleosi, toxoplasmosi ed herpes, giura sulla sua innocenza. In lacrime ha sostenuto di non essere in grado di spiegare l’accaduto. Un suo legale ha richiesto l’esame del campioncino B, che rarissimamente emette un verdetto contrario.

Emotivamente siamo tentati dall’augurare al corridore che, per una volta, il Laboratorio possa aver commesso un errore, ma il nodo è altrove: se un atleta è sospettato, che venga sospeso; se è ritenuto colpevole, che venga sanzionato, pesantemente, a prescindere dalla disciplina sportiva che pratica e dal paese di provenienza. In soldoni, diamo agli organismi internazionali super partes strumenti e potere per fare giustizia.

Certo, su scala nazionale, qualcuno potrebbe vedere il proprio orticello diventare sempre più esiguo, fino alla sparizione, ma qualche potentato locale in meno, vale uno sport, se non più sano, per lo meno più equo.