Sono molte le persone che convivono col sentimento di non sentirsi mai abbastanza, di dover costantemente essere qualcosa di più, di altro, di meglio. Che hanno, detto in altre parole, una bassa stima di sé.
Il livello di autostima è il risultato della relazione tra due elementi, il sé reale e il sé ideale. Il primo corrisponde a ciò che realmente siamo, il secondo a come vorremmo essere. Maggiore è la discrepanza tra le esperienze che viviamo e le nostre aspettative rispetto ad esse, minore sarà la stima di noi stessi, e viceversa.
Avere un’alta autostima non è però soltanto sinonimo – come si può essere portati a pensare – di sicurezza di sé, forza caratteriale, prestanza fisica, con conseguenze quali affermazione sociale ed efficienza. Avere un’alta autostima significa anche avere consapevolezza del proprio valore, apprezzando i propri punti di forza e accettando le proprie debolezze. Un atteggiamento che si traduce in un’apertura all’ambiente, un’autonomia e una fiducia nelle proprie capacità maggiori. Le persone con un’alta stima di sé dimostrano, infatti, una maggiore perseveranza nel raggiungere un obiettivo e sono in genere più propense a relativizzare un insuccesso. Una bassa stima di sé, per contro, può condurre ad una ridotta partecipazione e ad uno scarso entusiasmo. Riconoscendo esclusivamente le proprie debolezze, i soggetti in questione si arrendono più facilmente, soprattutto se incontrano delle difficoltà o sentono un parere contrario al loro.
Il cosiddetto «specchio sociale» è proprio uno degli elementi alla base dell’autovalutazione: mediante le opinioni comunicate da altri considerati significativi, noi ci autodefiniamo. Ulteriori elementi sono il confronto sociale e l’auto-osservazione. Percezione prettamente soggettiva, l’autostima muta nel tempo e si forma molto precocemente. «I bambini appena nati non sanno niente di sé stessi e del mondo e ricavano queste informazioni da chi si prende cura di loro, dal loro atteggiamento, dal loro sguardo, dal modo in cui si relazionano fisicamente – afferma Renzo Rossin, psicologo clinico, specializzato in psicosintesi educativa – questi elementi sono già decisivi per far sentire il piccolo amato o, al contrario, fargli percepire che c’è qualcosa che non va in lui. Anche se non c’è ancora la capacità di giudicarsi, il sentimento di sé comincia molto presto».
Quando il bambino poi inizia ad uscire dalla famiglia, con la scolarizzazione, l’atteggiamento delle figure significative esterne acquista importanza. «Gli insegnanti, per esempio, possono far sentire di maggiore o minore valore il bambino, il suo comportamento, la sua intelligenza, il suo modo di relazionarsi agli altri. Molto importanti sono ovviamente gli amici e i compagni», continua Rossin, che opera come psicologo clinico e counselor nel suo studio di Milano e come formatore presso alcune organizzazioni pubbliche e private.
I giudizi interni ripetono spesso quello che abbiamo sentito dire su di noi: «Si tratta di percezioni formatesi nel passato e spesso neppure coscienti. Come delle voci registrate, in famiglia e a scuola, che ci portano a comportarci sempre nello stesso modo, quasi a seguire un copione – continua lo psicologo – nel mio lavoro mi confronto spesso con persone che hanno dei comportamenti limitanti perché continuano ad essere condizionate da giudizi ricevuti in passato. Il lavoro psicologico serve proprio ad acquisire una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé e ad usare meglio le proprie risorse».
Conoscenza di sé che sta alla base di una buona autostima, che non è quindi un obiettivo da raggiungere, ma piuttosto qualcosa che si attualizza nel momento in cui «torniamo a casa», prendiamo cioè contatto con il nostro io più profondo. Avere un’alta autostima non significa quindi che non ci sentiamo più fragili o mai completamente a nostro agio: significa che accettiamo il nostro limite. «Dentro ad ognuno di noi c’è un Ulisse che vuole andare oltre i confini, ma in realtà è dentro i confini che costruiamo qualunque cosa. Le relazioni interpersonali, da cui dipende molto la qualità della stima di se stessi, sono un aprire questi confini agli altri» spiega Renzo Rossin. «Il confine è un concetto molto prezioso dal punto di vista educativo. Ci sono tanti giochi proprio sull’autostima in cui si fanno degli esercizi specifici sul confine». Secondo lo psicologo – che ha insegnato in vari ordini di scuola e in scuole di psicoterapia e counseling – per rafforzare l’autostima la scuola può fare tantissimo: «È fondamentale che gli adulti aiutino il bambino a percepire ciò che di bello ha in sé, attraverso esercizi espressivi, giochi di ruolo, ecc. Perché diventi “autostima”, e cioè “giudizio dato verso di sé da se stessi”, occorre infatti che vi sia una consapevolezza, che passa attraverso una serie di esperienze educative le quali rendono possibile al piccolo di conoscersi».
Questo darà i suoi frutti anche durante l’adolescenza, quando i ragazzi, confrontati a grandi cambiamenti, entrano in contatto con aspetti nuovi di sé. Ciò può generare un disorientamento, che li porta alla continua ricerca di conferme sociali e di nuovi modelli con cui confrontarsi. È in particolare il «gruppo dei pari» ad acquistare un ruolo importante nella costruzione della propria identità. Dall’altra parte il ragazzo deve però mantenere la consapevolezza di quello che dentro di sé lo rende unico, soprattutto in una realtà come quella virtuale in cui si interagisce con numerose persone contemporaneamente. Su smartphone e tablet, ciascuno rappresenta se stesso attraverso selfie, commenti, immagini e video, facendo diventare di conseguenza gli altri un pubblico. Se si ricevono e commenti positivi, il senso di autoefficacia è accresciuto ma quando un semplice gesto come quello cliccare su «Mi piace» non viene effettuato, il rischio è che questo venga vissuto come un rifiuto, con ripercussioni sulla stima di sé.
«Sant’Agostino diceva “la felicità non è avere tutto quello che si vuole ma volere tutto quello che si ha”. Un assunto che purtroppo non è attuale in una società dove si vuole sempre di più, quando in realtà non è quello che rende più felici – commenta Rossin – imparare a onorare l’esistente e poi cercare ciò che è desiderabile al di là di ciò che c’è, è un processo educativo che richiede una gradualità e una presenza preparata, benevola, incoraggiante da parte dell’adulto». Se questo non è avvenuto in modo adeguato, a scuola o in famiglia, la lacuna può, se del caso, essere colmata da un intervento psicoterapeutico: «Quello che previene è, ovviamente, la migliore delle medicine; come diceva una collega “se arriva in tempo è educazione, se arriva tardi è terapia”», continua Rossin, che ha lavorato come formatore per l’Alta Scuola Pedagogica della Svizzera Italiana e che attualmente collabora con la SUPSI e tiene, da quasi 30 anni, dei corsi di psicosintesi presso il centro Alchemilla di Balerna. La Psicosintesi è una corrente psicologica che si basa sull’insegnamento di Roberto Assaggioli, il quale è stato allievo diretto di Freud e amico di Jung: «La psicosintesi può essere sicuramente d’aiuto per il tema che stiamo trattando. Essa parte da un presupposto della psicologia umanistica che considera l’essere umano come portatore di potenzialità specifiche che possono essere identificate e valorizzate – spiega Rossin, che è pure co-fondatore della Società Europea di Ecopsicologia – si tratta quindi di un modo per conoscersi, che valorizza l’auto-esplorazione, l’auto-ascolto, anche attraverso l’immaginario e attraverso atti di raccoglimento e meditazione».