Tu chi sei? E tu come mi vedi? Domande apparentemente normali, quasi banali, nella loro formulazione. Ma ognuna di queste domande non è affatto banale e ancor meno può esserlo la risposta, che nasconde grande complessità. E poi, cosa è da considerarsi normale? Se lo chiede, tra le altre domande ricche di sfaccettature, la mostra «Tu!», allestita alla Villa Saroli di Lugano da aprile a dicembre e che l’anno prossimo, da gennaio a giugno, si sposterà al Castelgrande di Bellinzona.
In realtà non è una mostra convenzionale perché, come dicono gli organizzatori, non vi è nulla da mostrare. Quindi lo hanno definito «un percorso sulla diversità». Un percorso espositivo nato dal confronto di idee tra L’ideatorio/USI e Pro Infirmis Ticino e Moesano, che hanno dialogato con altri enti che si occupano di disabilità sul territorio. «Sosteniamo le persone affette da un handicap e le loro famiglie con prestazioni dirette, consulenze e altro», ci dice Michela Luraschi di Pro Infirmis, «ma da tempo volevamo rivolgerci a tutte le persone con un progetto che costituisse un avvicinamento alla società che vorremmo sia realizzata, la cosiddetta società inclusiva. Adesso l’abbiamo concretizzato prendendo a prestito le competenze dell’Ideatorio, che da anni ha animatori che incontrano i ragazzi e sanno interagire con loro». Dal canto suo Giovanni Pellegri, responsabile de L’Ideatorio, annota: «Ognuno di noi, nel corso della propria vita, sperimenta l’incontro con la fragilità. In alcuni casi può divenire scoperta dei propri limiti, in altri, esperienza di disabilità… il percorso vuole essere una scuola di pensiero utile a scoprire sé stessi e a educarci alla relazione con l’altro».
Questa forma di sensibilizzazione è realizzata attraverso giochi, testimonianze e video particolari, che inducono il visitatore a riflettere su questioni fondamentali che vanno dalla consapevolezza e dal riconoscimento della diversità esistente, che fa parte del mondo, alla comprensione di noi stessi come individui unici e pertanto diversi. La società inclusiva, a cui si vuole tendere, è uno spazio accogliente dove tutti possano esserci con le loro specificità e le loro risorse, per migliorare la vita di tutti. Dice il fascicolo di presentazione della mostra: «Lo sappiamo, ciò che facilita la vita di uno è benefico anche per gli altri. La scommessa è quella di creare un “noi” che racchiuda tutti. Non basta dunque appellarsi a una distaccata idea di uguaglianza e libertà. Una società inclusiva impone di agire, di superare pregiudizi e barriere, di abbandonare tutte quelle imposture e mistificazioni che ci legano ancora a un mondo in cui il diverso è il “mostro” da mostrare, o il “poverino” da aiutare».
Il percorso espositivo di «Tu!» si indirizza a tutti, ma la parte ludica è soprattutto rivolta ai ragazzi. Molte scolaresche ne stanno approfittando. Nell’intenzione dei promotori, considerato che l’obiettivo di una società inclusiva è grande e deve implicare un cambiamento mentale e culturale nelle persone, è importante partire dal bambino. Il suo sguardo nei confronti delle altre persone è spontaneo. I giovani, oggi più che in passato, sono abituati a vivere con le diversità senza averle ancora etichettate. Se confrontati con esempi positivi potranno felicemente diventare i costruttori delle società future.
Il discorso introspettivo suggerito dall’esposizione sembra raccogliere un malessere che vive anche all’interno dello stesso disabile. Ma come si sentono loro? Con sistemi audiovisivi si dà voce ad alcuni personaggi. Quello che loro sentono e quello che loro dicono è un bisogno di partecipazione alla vita, con l’esplicita richiesta di non essere solamente etichettate per quello che è il loro deficit o la loro malattia. Hanno voglia e bisogno di lavorare, di crescere. Ti dicono che hanno un nome, una storia, che sono una persona, vengono da una città, hanno una famiglia. Vogliono che l’interlocutore abbia voglia di incontrarle e di conoscerle e riconoscerle per quello che sono e per quello che valgono. Che in fondo è quello che chiediamo anche noi: non è l’abito, non è l’apparenza esterna che fa, bisogna andare un poco più in là.
Qui scatta un meccanismo di riflessione e autocoscienza: siamo diversi dagli altri ma nell’intimo siamo anche uguali, con gli stessi sentimenti e le stesse fragilità. Poi succede che l’esperienza e il nostro vissuto ci plasmino e ci cambino continuamente, sia fisicamente che moralmente. E magari un incidente o una malattia ci creano improvvisamente, o addirittura fin dalla nascita, situazioni di difficoltà che ci fanno mettere nella categoria dei diversi. Può accadere a tutti e non è una colpa. Siamo fatti così. Quindi è giusto non crearsi barriere psicologiche nei confronti dell’altro, sia da una parte che dall’altra. Una delle persone che nell’esposizione racconta la sua disabilità afferma per primo di esser lui che deve andare verso gli altri per evitare di alimentare quello sguardo prefabbricato che esiste sulle persone con disabilità. Questo perché la disabilità non è solo nelle persone che la portano, ma è legata allo sguardo di chi sta attorno, alla possibilità di accesso per tutti, al rispetto dei diritti di ognuno. Quando mancano queste attenzioni il deficit genera ulteriori svantaggi: «deficit + apparire + non partecipazione = handicap» sta scritto su una parete della mostra.
La Svizzera nel 2014 ha ratificato la Convenzione dell’uomo sui diritti delle persone con disabilità: sono 50 articoli che sanciscono l’indipendenza, la libertà di scelta, l’uguaglianza di diritti e doveri, la dignità di tutte le persone. Si è dovuti arrivare a un documento del genere per vincere le paure e il pregiudizio. Ma è la strada verso la società inclusiva. Quanto alla pretesa normalità: non siamo tutti uguali, non dobbiamo negare la diversità, ma al mondo si può stare in più modi. Un geniale gioco di immagini di volti sovrapposti cerca di individuare quale dovrebbe essere il personaggio medio, il più normale. Risultato? Il singolo non riesce a riconoscersi e sicuramente preferisce essere diverso.