«Par délicatesse / j’ai perdu ma vie»: già il visionario Rimbaud metteva in guardia dagli eccessi di altruismo. D’altra parte lo sappiamo: l’egoismo, quando è sano, protegge dalle prepotenze degli altri e migliora l’autostima. Però oggi come oggi pare che l’insensibilità verso le miserie di chi ci sta accanto sia l’unica moneta corrente e questo non giova certamente alla collettività. Come possiamo, in un’epoca dai ritmi velocissimi, coltivare le relazioni con il nostro prossimo? Quanto è importante spostare lo sguardo verso le fragilità altrui? Ne parliamo con Isabella Guanzini, che recentemente ha pubblicato un saggio per Ponte alle Grazie con un titolo demodé, in un’epoca dove l’aggressività pare avere la meglio: Tenerezza.
Come mai un libro che parla della tenerezza parte dalla vita nelle metropoli?
Quella è un po’ la part destruens, attraverso la quale ho voluto descrivere i luoghi in cui si fa fatica a vivere e a pensare la tenerezza. La metropoli è il simbolo del nostro tempo, il luogo in cui accade tutto e questo ha un riscontro anche su chi non ci vive. Nel suo eccesso di stimoli, nei suoi imperativi, nelle sue leggi di prestazione fa sì che gli uomini e le donne sviluppino una sorta di anestesia emotiva, sfidando la possibilità della tenerezza. Tutti hanno l’impressione di doversi proteggere dal sovraccarico di persone, di cose e di immagini, tutti puntano a diventare più freddi. «Cool» è il personaggio del momento e alla base c’è proprio l’idea di non farsi coinvolgere troppo.
È una forma di protezione?
È una forma di protezione dei nervi. Non a caso ho citato il libro di Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, in cui il generatore simbolico è il denaro e in cui il lavoro fagocita le persone. Il risultato? Siamo sempre più stanchi, sempre più esausti. E la stanchezza e la sovraeccitazione sono a rifletterci bene il contrario della tenerezza.
Come fare breccia in questo paradigma che ci vede distanti, su posizioni spesso nemiche?
La tenerezza è un modo di percepire e di incontrare il mondo, è una questione di cambiamento di visione. Nel libro cito David Forster Wallace, che racconta che quando siamo imbottigliati nel traffico o in coda al supermercato, la nostra reazione automatica è quella di reagire con aggressività e insofferenza. I bambini schiamazzano, la persona in coda è molto lenta, un automobilista ci sorpassa sulla destra; tutto ci urta i nervi. Dovremmo provare invece a cambiare la nostra disposizione mentale e pensare che i bambini si lamentano perché come noi sono molto stanchi, la persona davanti è lenta perché magari ha appena subito una separazione e l’automobilista ci sorpassa sulla destra per arrivare presto dalla madre che non sta bene. Questo approccio ci aiuta a metterci nei panni dell’altro e a sviluppare una sorta di sguardo sensibile, più attento, non aggressivo nei confronti delle situazioni. Per me la tenerezza risiede in questo, nell’educare lo sguardo a un nuovo approccio alla realtà, più attento alla fragilità dell’altro e di se stessi.
È possibile iniziare questa educazione alla tenerezza con i bambini, che di solito sviluppano queste modalità aggressivo-protettive più avanti?
Non è vero che i bambini sono teneri e poi all’interno di questa società della concorrenza e della prestazione diventano sempre più duri; io credo sia molto diffuso un modello educativo che porta alla diffidenza sin da subito. Ai bambini si passano dei messaggi contraddittori: da una parte gli si chiede di essere gentili, buoni, rispettosi, dall’altra l’estraneo viene rappresentato come una potenziale minaccia dalla quale bisogna proteggersi. Per questo è necessaria un’educazione al sentire in grado di iniettare nei bambini la capacità di essere attenti, di notare i dettagli, di sforzarsi di comprendere le situazioni. Credo che la scuola sia un luogo decisivo per la tenerezza, perché noi docenti (ho insegnato tantissimi anni al Liceo) siamo diventati molto bravi nel costruire delle mappe cognitive, ma ci dimentichiamo spesso dell’altrettanto utile se non più importante mappa affettiva. I ragazzi devono imparare a nominare le proprie emozioni, le proprie ansie e le proprie felicità. Talvolta questa grammatica degli affetti manca del tutto. E quando gli affetti, soprattutto quelli negativi, non vengono nominati, rischiano di esplodere in atti violenti. La mediazione della parola, del linguaggio e della cultura è essenziale per sviluppare questo modo di stare al mondo.
Ma che cos’è, in definitiva, la tenerezza?
Per come la intendo io è la percezione della fragilità dell’altro, è una reazione di cura nei confronti di una situazione, di una persona che ha bisogno.
Perché ha parlato di tenerezza e non di gentilezza?
La gentilezza e la tenerezza hanno sicuramente degli aspetti in comune. Già sulla tenerezza grava un’enorme ipoteca, si fa fatica a definirla, spesso la si confonde col sentimentale; la gentilezza porta con sé un altro rischio, quello dell’inautenticità. Di fronte a una persona molto gentile ci si chiede sempre se sia vera, si percepisce una patina un po’ artificiale. La gentilezza è un mediatore delle situazioni pubbliche, ha un elemento di formalità, mentre la tenerezza, per come la intendo io, è qualcosa di più viscerale.
Ci sono delle persone che sono eccessivamente preoccupate del benessere altrui e mettono da parte il proprio. Come capire qual è il dosaggio giusto per la tenerezza?
Il rispetto dei limiti dell’altro passa per forza di cose attraverso la presa di coscienza dei propri. La tenerezza non è un gesto di estroversione per cui si è rivolti esclusivamente verso l’altro, è qualcosa di più elementare e originario, uno sguardo che percepisce che siamo tutti fragili, tutti bisognosi di cura e attenzione.
Lei vive fra Italia e Austria. Fra il mondo germanofono e quello italofono. Nota delle differenze nell’approccio alla tenerezza?
L’Italia ha una sua caratteristica propria difficile da definire. Ci troviamo un paesaggio umano, ma anche naturale, che ha a che fare con una «geoestetica», cioè con un insieme di luoghi e percezioni, che genera un mondo affettivo fatto di lingua, cibo, profumi unici. L’umanità di fondo è secondo me davvero particolare, forse perché il mio Paese ha una tradizione familiare, benché in crisi, molto più forte. Vienna, la città dove vivo, non fa testo, è una città particolare, ha dei tratti di cinismo che riscontrano quasi tutti: qui la vita pubblica è piena di ironia e sarcasmo. L’Austria in sé, che non è Vienna, è naturalmente un luogo di emozioni e affettività, ma il modo di viverle ed esprimerle ha una tonalità diversa.