Dalla Francia agli Stati Uniti, passando per l’Italia dove è appena stata approvata una nuova legge (Codice Rosso), si intensifica il dibattito sulla violenza domestica, psicologica e fisica, che sfocia nei femminicidi. Con quest’ultimo termine si intende l’uccisione di una donna a causa del suo genere di appartenenza (cioè del suo essere donna), per motivi di odio, disprezzo o senso del possesso. Nella maggioranza dei casi, il delitto è commesso dal marito, dal compagno o dal fidanzato, spesso dopo la rottura della relazione. Un fenomeno confermato dall’ultimo rapporto dell’Onu sull’incidenza dei crimini nel mondo (UNODC), secondo il quale, inoltre, gli omicidi commessi per mano di un partner raramente sono casuali, essendo in molti casi pianificati o esito di un’escalation.
Ma come si parla di violenza domestica? Nel dibattito pubblico, anche mediatico, si fa riferimento a «uomini terribili e irascibili» e alle loro «sfortunate donne», alla «rabbia maschile incontrollabile» e al «fato avverso». Un libro appena pubblicato negli Stati Uniti offre una chiave di interpretazione diversa. In No visible bruises (Senza lividi visibili), definito da «The Washington Post» un testo che «salverà delle vite», la giornalista e scrittrice americana Rachel Louise Snyder esamina le cause culturali e sociali dei femminicidi e l’inadeguatezza del sistema giudiziario nella prevenzione dei delitti. L’analisi della tragedia di un’intera famiglia del Montana, con moglie e figli uccisi dal padre e marito, poi suicida, diventa uno strumento per raccontare come un familicidio possa avvenire nell’incapacità di chi è attorno, dai parenti agli amici, di capire la gravità della situazione e di intervenire in tempo. Dalle interviste a familiari, avvocati, agenti di polizia e dall’analisi dei documenti disponibili, come ad esempio i filmini girati durante i momenti di svago, emerge uno spaccato chiaro: l’uomo che commette uno o più omicidi non è consumato da una rabbia costante né viene colto da raptus. Invece, è ossessionato dalla convinzione che gli si debba portare rispetto e lo si debba assecondare sempre. Soprattutto, non concepisce la possibilità di essere lasciato.La violenza di genere è pervasiva e ha radici nella normalità della quotidianità. L’autrice di No visible bruises – il saggio ha ricevuto ottime critiche e ha un fitto calendario di presentazioni – ha alle spalle anni di reportage in diverse parti del mondo. Ha scritto di spose bambine in Romania, di vittime di crimini sessuali in India e di sterilizzazione forzata in Tibet. Quando è tornata a Washington nel 2009, ha iniziato un’indagine approfondita sull’epidemia di violenza contro le donne negli Stati Uniti. Dopo avere intervistato centinaia di persone tra vittime, esperti e assassini, si è fatta un’idea precisa del problema. La violenza domestica è diversa dagli altri reati, non accade nel vuoto, non capita perché qualcuno si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma è frutto di un sistema culturale. È il male di qualcuno che si conosce e dal quale ci si aspetta amore. Questo la rende così insostenibile. Di solito è nascosta anche ai confidenti e in molte occasioni la violenza fisica risulta meno dannosa di quella emotiva e verbale. Ed è subdola perché accade in casa, luogo che «dovrebbe essere un territorio sacro, il “rifugio in un mondo senza cuore”, come mi ha insegnato il mio insegnante di sociologia all’università».
Tra le tante informazioni contenute nelle trecentoventi pagine, due sono particolarmente rilevanti per la prevenzione delle tragedie. La prima: il tentativo di strangolamento è un segnale particolarmente importante – va preso come un allarme – per capire se si rischia che la violenza sfoci in un omicidio. La seconda: se la sequenza temporale della violenza (minacce, stalking, soffocamento, violazione degli ordini restrittivi) viene registrata e condivisa tra le diverse forze dell’ordine e le istituzioni giudiziarie, si possono prevenire più facilmente gli esiti fatali.Interessante la riflessione offerta da Snyder sull’espressione «violenza domestica» usata per descrivere un fenomeno così devastante: una terminologia, a suo dire, inadeguata, incapace di cogliere l’incubo vissuto nella realtà. «Per altri tipi di eventi terribili abbiamo parole che comunicano vividamente le situazioni che descrivono. Genocidio e olocausto, per esempio, oppure crimini contro l’umanità. Sono tutte astrazioni – fondamentalmente solo un mucchio di fonemi messi insieme – capaci tuttavia di evocare immagini sorprendenti. Mentre scrivo queste parole, le visualizzo nella mia mente. Sono una sorta di stenografia del peggio che gli esseri umani si infliggono l’uno all’altro. Con “violenza domestica” non si ottiene lo stesso effetto». Addirittura, può rimandare a un’idea di complicità della vittima perché un pensiero comunque è che, dopo tutto, il proprio partner si sceglie e lasciarlo sia semplice, basta volerlo. La parola «domestica» evoca qualcosa di accogliente, non di brutale. Inoltre, molte persone tendono ad associare il mondo della casa a qualcosa di femminile e di «privato», che non riguarda l’intera società.
Ricercatori ed esperti stanno cercando una definizione migliore, ma è difficile trovare qualcosa che metta tutti d’accordo. Snyder si è rivolta anche a Deborah Tannen, sociolinguista della Georgetown University e autrice di numerosi libri sul linguaggio e sulla comunicazione. Hanno discusso per un giorno intero di persona, continuando successivamente a distanza, su quali parole potrebbero essere adeguate. Sono giunte alla conclusione che l’aspetto peggiore vissuto dalla vittima è il «terrore» – termine che, secondo loro, dovrebbe essere considerato seriamente – ossia la paura del male non ancora accaduto. Ci si abitua a uno stato di accresciuta vigilanza, in uno stress psicologico paragonabile a quello dei prigionieri di guerra, perché vengono usate le stesse tattiche di isolamento, umiliazione e lavaggio del cervello.