«Non respiro! Ho bisogno di te, non riesco a muovermi! Tremo tutta, sto sudando! Aiuto! Non riesco a camminare! Mi sento svenire!» Lena (nome noto alla redazione) è al telefono, chiede aiuto, parla ma è certa di non riuscire a respirare, crede di morire da un momento all’altro. Dall’altro capo sua madre che le chiede dove si trova: è sul marciapiede, sulla via di casa. Ma alla sollecitazione di camminare e respirare che è quasi arrivata, Lena non riesce nemmeno a muoversi ed è già tanto se ha saputo digitare il numero telefonico che la collega con qualcuno, con la realtà che a lei, in quel momento, pare assolutamente minacciosa. Non c’è stato un attacco terroristico, Lena non ha subito nessuna aggressione o cose di questo genere: sta solo rientrando a casa dal lavoro, come tutte le sere, e attorno a lei non sta succedendo nulla che giustifichi ciò che, d’un tratto, per lei si traduce in un attacco di panico.
«Gli attacchi di panico possono essere segnali positivi che provengono dal nostro inconscio, segnali che vanno analizzati e che ci indicano come qualcosa nella nostra vita non va per il verso giusto e va modificata», esordisce lo psichiatra Michele Mattia, presidente Asi-Adoc (Associazione della Svizzera italiana per i disturbi d’ansia, depressivi e ossessivo-compulsivi). Se lo dicessimo a Lena, in quel momento, non caveremmo un ragno dal buco. «Lena è nel pieno di un attacco di panico: una crisi d’ansia molto forte, improvvisa e inattesa che può cogliere in ogni momento della vita, anche se spesso non ne riconosciamo subito le cause», afferma lo specialista che ne descrive la manifestazione attraverso «una forte e intensa tachicardia, l’angoscia di non riuscire a uscire dalla situazione, palpitazioni, vertigini, sudorazione intensa e la sensazione di non riuscire a respirare, di morire da un momento all’altro. Vengono così colpite la parte cognitiva, somatica, comportamentale ed emotiva».
Proprio come descrive Lena, ma in realtà non è così: «L’attacco di panico non comporta un reale pericolo, ha una durata che va da alcuni minuti (da 10 a 30 circa, raramente più di un’ora) e la sua intensità va smorzandosi da sé, lasciando la persona esausta». Esso è definito da una dimensione di elevata scarica adrenalinica come se vivessimo uno stato di minaccia molto forte: «Abbiamo paura che ci succeda qualcosa e temiamo un rischio irreale sovrastimato dalla nostra mente».
Gli attacchi di panico sono molto diffusi, soprattutto tra i giovani, tanto che a ottobre Asi-Adoc ha dedicato a questo tema una giornata informativa. Il dottor Mattia stima che l’incidenza nei giovani dei College americani è del 40-50 per cento, mentre in Europa si situa attorno al 30-35 per cento: «Circa il 30 per cento della popolazione urbana soffrirà, almeno una volta nella vita, di un attacco di panico». I giovani sono dunque i più colpiti: «Non dimentichiamo che il cervello dei ragazzi è ancora in evoluzione, dunque vulnerabile, e già in età giovanile la nostra società impone loro un’estrema competitività, bombardandoli di una sovrabbondanza di informazioni che il cervello in crescita può faticare a gestire».
I fattori di rischio passano per gli schermi degli apparecchi, a cui si vanno ad aggiungere altri fattori come la richiesta di perfette e immediate competenze, la modifica della dimensione famigliare, il sovraffollamento dei nuclei urbani, il rumore e quant’altro. «Tutto questo aumenta la sensibilità emozionale dei ragazzi e ne acuisce la difficoltà di avere un filtro adeguato, in una società che oggi possiamo definire come un’eccellente creatrice di ansia». Certo, essere vulnerabili gioca un ruolo insieme ai fattori di rischio ambientale: «Il nostro cervello si forma per due terzi dopo la nascita, secondo i fattori ambientali, famigliari, scolastici e gruppi di appartenenza che ci influenzeranno».
Se la paura è uno stato emozionale assolutamente naturale e si definisce come un atto emotivo di difesa e di conservazione, non è così per l’attacco di panico: «La paura è la risposta adeguata a un reale pericolo; l’attacco di panico origina da una sovrastima della paura, amplificando la sensazione di un pericolo virtuale che accende lo stato d’ansia e arresta la valutazione cognitiva».
Inutile, perciò, dire a Lena di mantenere la calma o provare a convincerla che non succederà nulla: «Quando entriamo nel circuito dell’ansia usciamo dalla nostra razionalità e siamo paralizzati dalla perdita delle nostre capacità cognitive. Tutto rientra solo nel momento in cui il panico si riduce, lasciando posto all’esperienza traumatica. Allora l’evitamento è in agguato perché si crea una memoria biologica del trauma che potrebbe indurci a evitare la situazione originaria». Anche perché l’attacco di panico non arriva per caso: «Al suo interno c’è un messaggio che dobbiamo provare a leggere; non a caso i Greci dicevano che quando ci si trova a mezzogiorno con il sole a picco in un quadrivio, non vedendo la propria ombra si potrebbe venire colpiti dal panico».
Scoprire in cosa consiste «quel-l’ombra» nella nostra vita è la chiave per tramutare quella che ci pare un’esperienza drammatica e incontrollabile in qualcosa che, dice bene lo psichiatra: «Ci può portare a una rinascita, perché la crisi di panico è un segnale evolutivo della nostra esistenza che ci dice che dobbiamo modificare qualcosa del nostro vivere, altrimenti la nostra mente insisterà nel produrre attacchi di panico».
A lanciarci un fortissimo e chiaro segnale è dunque una parte di noi che non dominiamo: «Dobbiamo riprendere in mano la nostra vita, individuare cosa non va e provare a cambiare le carte in tavola, preferibilmente accompagnati da uno psicologo o psichiatra specializzato in questo campo». Lavorare per trovare le strategie e gli strumenti di cura degli attacchi di panico si può: «La terapia cognitivo-comportamentale è la più indicata, a patto che ci si crei la coscienza del problema e si voglia superarlo». Allora, un mix di «ristrutturazione cognitiva», unita a tecniche di rilassamento ed eventualmente a un’adeguata farmacoterapia possono aiutarci a risolvere parecchio della situazione: «Fondamentale è l’arrivo precoce in terapia e Asi-Adoc è a disposizione. La crisi non va subita ma affrontata, riconosciamo e troviamo una via per entrare nella dimensione del recupero delle nostre capacità e, soprattutto recuperiamo la nostra vita».
E Lena? Ha consultato un professionista, ha compreso che da tempo era oppressa da un rapporto di coppia che subiva passivamente, ha preso in mano la sua vita e riconquistato la sua indipendenza. Lena non ha più vissuto attacchi di panico e oggi è consapevolmente serena.