La scena forse più raccapricciante di Alien – il film che Ridley Scott realizzò nel 1979 – è quella, nella quale dal torace di Kane fuoriesce una creatura mostruosa, che gli si era sviluppata dentro, e che poi fugge via per l’astronave.
Nella realtà, le cose non stanno molto diversamente, tanto che, studiando il comportamento di alcuni animali, c’è da chiedersi se non stiamo per caso vivendo in un pianeta orribile, popolato da creature ripugnanti. Si pensi, per esempio, alla Sacculina carcini, incubo e parassita di tanti granchi. Nella fase di larva, questo crostaceo s’insinua nelle parti più vulnerabili dei granchi – per esempio tra le articolazioni –, agganciandosi con tenacia alla sua preda. Successivamente, vi inietta alcune sue cellule, mentre la parte rimasta fuori muore. Quelle poche cellule depositate nel corpo del granchio si moltiplicano e si differenziano, diffondendosi nel corpo ospite come un cancro.
Per via ormonale, la Succulina prende il controllo fisico e comportamentale del granchio, crescendovi dentro. In uno stadio successivo, essa produce un sacchetto esterno, dove si svilupperanno le uova. Maschio o femmina che sia, il granchio ne avrà cura, trascurando se stesso. Mature sino al punto di essere fecondate, le uova si apriranno in modo tale da essere disponibili a ricevere l’esserino prodotto dalla Succulina maschio, che morirà subito dopo. «È come se durante l’atto sessuale di due esseri umani – ha scritto la zoologa Lisa Signorile –, subito prima della penetrazione, il pene prendesse vita, si staccasse ed entrasse nelle vie genitali della donna per fecondarla, mentre il resto dell’uomo degenera, dopo che gli sono esplosi gli occhi e gran parte degli organi è stata espulsa».
E se vi sembra che sia una faccenda, sì, disgustosa ma, dopotutto, confinata al regno animale, che ne dite del candirù (Vandellia cirrhosa), il piccolo pesce gatto, «lungo al massimo 6 cm e largo massimo 1 cm» (scrive sempre la Signorile) che vive nel Rio delle Amazzoni e che, risalendo il flusso dell’urina, s’infila nell’uretra dei mammiferi che fanno pipì in acqua, sino ad arrivare nella vescica? Potrebbe essere una leggenda metropolitana (o «forestale»), «ma se proprio dovessi fare il bagno nel Rio delle Amazzoni, userei un costume da bagno corazzato in kevlar».
Laura Signorile, che oggi si occupa di genetica delle popolazioni all’Imperial College di Londra, aveva raccolto descrizioni di molte creature raccapriccianti con cui conviviamo in un blog, poi diventato libro, intitolato L’orologiaio miope. Nella sua attività di ricerca più recente, Laura Signorile si è dedicata allo studio di come gli animali hanno migrato per tutto il pianeta ben prima della nostra comparsa, dalla disgregazione di Pangea a oggi, lungo un periodo di circa 200 milioni di anni, vale a dire dal Triassico fino ai giorni nostri. Nel corso di questo lungo lasso di tempo, per un verso gli animali si sono spostati a causa di fenomeni migratori come sempre dovuti o alla pressione demografica o di mutamenti ambientali, per l’altro verso essi si sono spostanti su terre emerse che, esse stesse, scivolavano sulla Terra, generando a poco a poco la configurazione dei continenti che ci è nota.
I marsupiali, per esempio, che tendiamo ad associare al continente australiano, provengono da una zona corrispondente all’attuale Cina, e nell’odierna Australia giunsero dopo un lungo viaggio cominciato nel Giurassico e finito nel Paleocene. Colonizzate prima l’Asia, poi l’Europa e quindi il Nord America quando i due continenti erano abbastanza vicini, i marsupiali approfittarono di quando, nel tardo Cretacico, i due continenti americani si unirono, andando verso sud. Quindi arrivarono in Australia, passando per l’Antartide, continente allora molto vicino alla futura terra dei canguri.
«Ripercorrere la strada tracciata dagli animali nella loro colonizzazione dei continenti» è il compito che Lisa Signorile si è prefissata con Il viaggio e la necessità. L’autrice ha avuto accesso alle più recenti scoperte, ma ciò nondimeno sono ancora tante le questioni che attendono d’essere risolte come, per esempio, la presenza di scimmie in Sud America già 25 milioni di anni or sono.
Si potrebbe ipotizzare provenissero dal Nord America, sennonché i due continenti, allora, erano tanto lontani, da rendere quasi impossibile il passaggio da isola a isola; inoltre tutti i primati del Nord erano, allora, «dal naso umido» come i lemuri, mentre tutte le scimmie del Sud e del Centro America assomigliavano ai «parapitechi, scimmie vissute in Africa nell’Oligocene e ora estinte».
Una seconda ipotesi è quella antartica: a lungo unita all’America del Sud, l’Antartide avrebbe potuto fare da ponte con l’Africa, permettendo alle scimmie del Vecchio mondo di migrare nel Nuovo, «un’ipotesi affascinante ma mancano le evidenze fossili perché il continente è oggi ricoperto dai ghiacci». Non se la cava meglio la terza ipotesi, quella accreditata da Richard Dawkins, che prevede la migrazione via mare, su «zattere di mangrovia»: nessuna scimmia sarebbe stata in grado di sopravvivere ai cinquanta giorni necessari per passare da un continente all’altro via mare.
C’è un momento nel quale lo studio della migrazione degli animali intercetta la migrazione del nostro genere. La documentazione fossile non lascia equivoci: in tutte le terre emerse, nelle nostre prime ondate migratorie abbiamo sterminato l’intera megafauna, incapace di sottrarsi alle nostre lance e ai nostri archi. Laddove siamo tornati successivamente, ci hanno pensato cani, gatti, ratti e manguste a far fuori le specie autoctone, incapaci di difendersi.
Contrariamente a quanto si può pensare, l’importazione di animali provenienti da altri continenti riduce la biodiversità. Ecco, dunque, che il messaggio di Laura Signorile è chiaro: «è fondamentale limitare l’importazione di alloctoni ed eradicarli e controllarli laddove possibile (Homo sapiens incluso) per contenere i danni e rallentare l’inesorabile perdita di biodiversità nella speranza di sopravvivere un po’ più a lungo come specie e forse anche come individui».