Ambivalenze del gioco d’azzardo

Dipendenze – Nelle esperienze di gioco ossessivo o patologico si vive la perdita di controllo sul bilancio fra ragione e non-ragione
/ 18.04.2017
di Massimo Negrotti

Pare che l’espressione «azzardare» derivi dall’arabo zara, cioè il gioco dei dadi e si sia poi estesa a tutte le attività che presentano un rischio, positivo o negativo come è per il francese antico hasard o l’inglese hazard. Ma non c’è bisogno dell’etimologia per intuire che il gioco d’azzardo e, più generalmente, il desiderio di «sfidare la sorte» è antico quanto l’uomo. Tuttavia, oggi, sembra che l’attitudine al gioco d’azzardo, nel mondo sviluppato, stia generando vere e proprie forme di dipendenza, talvolta definite persino patologie o, appunto, ludopatie. In realtà l’assiduità al gioco non è una novità e già Dostoevskij ce ne fornisce la prova ne Il giocatore, del 1866, in cui, fra l’altro, compaiono figure di tutte le categorie sociali.

Può darsi che, attualmente, la disponibilità di tecnologie di varia natura che, grazie all’elettronica, hanno ampliato notevolmente l’offerta di dispositivi con cui giocare (in particolare slot machine e mille canali Internet attraverso cui fare «puntate») abbia agito da moltiplicatore delle tentazioni e, poi, delle dipendenze psicologiche. È però sicuro che nessuno può dirsi davvero estraneo al fascino dell’azzardo poiché, in misura per così dire «normale», si tratta di una propensione naturale verso il regno del possibile, della «fortuna» che ci può baciare improvvisamente, del futuro che potrebbe essere in procinto di riservarci una gradevole sorpresa. 

Naturalmente chiunque sa perfettamente che, nel gioco d’azzardo, le probabilità sono tutte contro e ciò certamente determina il carattere non razionale di questa attività se pensata come si trattasse di un investimento. Ma, paradossalmente, è proprio per questo che il giocatore trae eccitazione dal fatto di giocare. Infatti, se vincere fosse possibile con alta probabilità, la vincita non fornirebbe alcuna gratificazione speciale. Il desiderio del bacio da parte della Fortuna, la dea romana, in altri termini, è invece il desiderio irrazionale di venire selezionati dalla «dea bendata», come fosse il premio per qualche nostra particolare virtù.

C’è, inoltre, la percezione di ciò che sopra ho chiamato il «regno del possibile», ossia l’intuizione che tutto può accadere e, dunque, anche la vincita in un gioco in cui il successo, sotto il profilo matematico, è una probabilità infima. In fondo, chi gioca alle grandi lotterie o in altre simili circostanze, dimostra di possedere un orientamento ottimistico perché, sulla base del principio secondo cui anche un fenomeno a bassa probabilità «non si può escludere» del tutto, si affida alla possibilità che il successo arrida proprio a lui in quella occasione. L’ottimismo non risiede solo nel fatto di porre fiducia in un evento poco verosimile ma anche nella fiducia che viene riposta in comportamenti che presentino probabilità altrettanto basse ma di esiti negativi. Per esempio, la probabilità che l’aereo su cui stiamo per salire abbia un incidente durante il volo è, grosso modo, la stessa di una nostra grossa vincita ad un lotteria nazionale, ma l’ottimista trascura la prima e conta invece sulla seconda.

Le cose sono ben diverse quando interviene la dipendenza, cioè quando il giocatore finisce per diventare preda del gioco che agisce su di lui con una forza attrattiva irresistibile. Qui, la massima di Seneca secondo cui «semel in anno licet insanire» (una volta all’anno è lecito far pazzie) cessa di essere una opportuna concessione al bisogno umano di staccarsi, di quando in quando, dalle regole, dal calcolo e dalla ragionevolezza per abbandonarsi al sogno ad occhi aperti e alla casualità degli eventi, sperando siano positivi.

La figura del giocatore ossessionato dal gioco, anche senza coinvolgere, come è stato fatto, questioni patologiche di indole freudiana, è invariabilmente una figura triste, cupa e taciturna che finisce per impoverire le stesse relazioni sociali quotidiane. Egli è tacitamente persuaso di condurre una specie di battaglia infinita con la sorte che lo raggira, lo illude e poi di nuovo lo lascia a bocca asciutta. Il giocatore ossessivo non ha né vuol sentire argomenti razionali perché li conosce bene ma è convinto che essi nascondano una verità più profonda, quella di un’entità invisibile potenzialmente sempre pronta ad essere catturata a proprio favore. Se non questa volta, magari la prossima: chi lo può escludere?

Le vincite, che ogni tanto gli accadono, di più o meno modeste somme di danaro lo stimolano ad insistere quanto lo stimolano le sconfitte, sicuramente più numerose. In realtà, non c’è nessuna vincita che lo possa soddisfare pienamente poiché, ormai, è il gioco in quanto tale ad assorbire tutto il suo interesse e così come le sconfitte gli servono come alibi per continuare e rifarsi, le vincite sono per lui la prova che la vittoria finale è dietro l’angolo e, dunque, conviene proseguire. Egli si persuade che la sorte, l’entità invisibile con cui ha ingaggiato la guerra, in realtà non sia del tutto imperscrutabile e, così, immagina e definisce, a proprio uso mentale esclusivo, segnali, correlazioni fra eventi o azioni da compiere dalla cui elaborazione attende una sensazione di soddisfacimento e di sicurezza nel prossimo atto di gioco. Mentre la cabala o il codice della «smorfia» napoletana forniscono indicazioni di gioco aperte a tutti e non raramente accettate con leggerezza e senza impegno alcuno, i codici e le procedure mentali del giocatore ossessivo sono totalmente personali e incomunicabili, governate da una «razionalità» completamente soggettiva, che nessuno può capire ma che, presto o tardi, porterà ad una pienezza di godimento che, peraltro, assume una consistenza quasi metafisica. A questo fine viene sacrificato ogni altro valore e, in tal modo, il soggetto può accedere ad una china pericolosa di a-socialità e di potenziale aggressività.

In definitiva, vale per il gioco ossessivo la stessa dinamica che vale per ogni altra forma di comportamento rischioso esagerato e dominante, cioè la perdita di controllo sul bilancio fra ragione e non-ragione, fra volizione personale e dipendenza da ciò che ci viene offerto dal mondo. Un capitolo decisivo per qualsiasi pedagogia.