È rassicurante constatare come alcuni miti della modernità reggano il peso degli anni. In un mondo in cui scompaiono schieramenti politici storici come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista in Italia, in cui crollano compagnie aeree come la nostra Swissair, e le mode si accavallano con rapidità destabilizzante, alcuni concetti fondamentali dello Swiss Style sembrano inamovibili. Lunga vita quindi al coltellino nazionale, al cioccolato, a fondue e râclette, ma lunga vita anche al Tour de Suisse.
La nostra corsa ciclistica – chiamata così, à la française, anche dagli svizzero-tedeschi – è più giovane rispetto al Giro d’Italia e al Tour de France, che hanno già varcato la soglia dei cent’anni, tuttavia, nei suoi 85 anni di esistenza (quest’anno si è disputata la 82a edizione) è riuscita a imporsi come un must, come un’esperienza individuale o collettiva imprescindibile per chi vive su suolo elvetico. Per quali ragioni? 1. Perché si tratta di una festa popolare gratuita; 2. Perché dopo la corsa si mangia, si beve, si canta e si balla; 3. Perché non ci si azzuffa, anzi, fra le varie tifoserie, al posto dei cazzotti, ci si scambiano sorrisi, salsicce, birra e vino; 4. Perché nei sette milioni del budget la voce «sicurezza» non prevede investimenti per assoldare poliziotti in assetto di guerra; 5. Perché è molto facile rimediare un autografo o un selfie con il corridore preferito, anche con il Campione del mondo; 6. Perché gli sponsor distribuiscono al pubblico tonnellate di gadget: alcuni utili, come cover per cellulari, magliette e zainetti; altri deliziosamente superflui, tanto da far imbufalire chi a casa li dovrà riporre o smaltire.
Sono ragioni che vanno al cuore della gente, tuttavia il fenomeno Tour de Suisse non lascia indifferenti anche coloro che lo affrontano con uno spirito imprenditoriale .
Acquistare i diritti per l’organizzazione di una partenza di tappa costa 20mila franchi. Un arrivo ne costa 60mila, cifre che lievitano leggermente durante il finesettimana e per le frazioni di montagna. Eppure, anche se tendenzialmente le grandi località sono state bandite per una questione di viabilità, gli organizzatori sostengono di non conoscere la parola «crisi». Ci sono comuni piccoli come Oberstammheim, Gansingen e Gommiswald che si mettono in gioco pur senza avere interessi turistici. Altri, come Gstaad, Leukerbad, Villars sur Ollon, Frauenfeld hanno firmato contratti triennali per poter approfittare del più spettacolare spot televisivo che possa essere prodotto. Uno spot che, diffuso in oltre cento paesi, genera un cospicuo ritorno di immagine.
In Svizzera non siamo ancora sui livelli magistrali del Tour de France, dove ogni tappa è quasi paragonabile ad un documentario di «GEO», ma stiamo crescendo per tipologia e qualità di immagini. Tutte le forze coinvolte – organizzazione centrale, comitati regionali, media, sponsor – si sono resi conto che le circa venti ore di diretta televisiva in cui sudore, lacrime, sofferenza, fatica, gioia ed emozioni si mescolano con laghi, fiumi, castelli e vette imbiancate, hanno più appeal di mille spot creati ad arte.
Anche là, dove altre manifestazioni si vedono la strada sbarrata, il Tour de Suisse trova porte aperte. Così sostiene David Loosli, ex corridore professionista, attuale direttore sportivo della corsa: «Non riscontriamo nessun problema nell’ottenere il permesso di far transitare il Tour nel cuore dei villaggi, anche dove ci sono strettoie, porfido e pavé. Anzi, spesso sono le Municipalità a chiedercelo».
A onor del vero, gli organizzatori qualche problema ce l’hanno, nei confronti della Svizzera Romanda, che difende a denti stretti la propria corsa regionale, pure inserita nel grande calendario mondiale, e che a volte si nega, altre invece viene snobbata. Quest’anno solo una tappa su nove, quella che da Gstaad conduceva a Leukerbad, o, se preferite, Loèche-les-Bains, prevedeva circa 110 km su suolo romando. Un po’ pochi, su un totale di 1215. Un caso, sostiene Loosli. Una vergogna, ribadiscono al di là della Sarine. Difficile affermare se si tratti di un problema di mercato oppure di «une affaire politique». Emerge tuttavia la sensazione che nel 2019 verrà posto rimedio.
Il Tour de Suisse è amato anche dai corridori, che ignorano queste polemiche. Lo amano perché l’ambiente è più rilassato, quindi possono permettersi di scendere dai loro lussuosi bus dai vetri fumé, per prendere un caffè al villaggio di partenza con colleghi di altre squadre, fans e giornalisti.
Provare per credere! Troverete un magico calderone nel quale riversare tutto il vostro orgoglio nazionale e regionale. Gli organizzatori locali vi versano il loro amore per il territorio, i loro vini, le pietanze, la musica e i costumi. Quelli delle località più discoste lo fanno spesso con maggiore intensità, come è capitato nei recenti arrivi di Carì, Olivone e Cevio.
Qualcuno potrà pensare che queste considerazioni siano il frutto di impressioni personali raccolte in oltre 20 anni al seguito del Tour de Suisse. È vero, lo sono, tuttavia c’è un dato che conferisce loro una parvenza di scientificità. Se da un lato gli indici di ascolto della tappa conclusiva del 2009, con Cancellara lanciato verso il successo sulle strade della sua Berna potevano far impallidire quelli di una parata militare sulla Piazza rossa , diffusa dalla TV sovietica durante gli anni della guerra fredda, è giusto sottolineare che i dati medi relativi alla fruizione televisiva della nostra corsa nazionale sono regolarmente e nettamente superiori a quelli del Giro d’Italia e spesso si lasciano alle spalle anche quelli della blasonata e ipermediatizzata Grande Boucle. Come cantava Roberto Vecchioni: «Forse non lo sai, ma pure questo è amore».