Abbiamo anche dei diritti

Sport - Suggestivo, il tema dell’edizione 2019 della Notte del Racconto destinata a bambini e ragazzi, ovvero a coloro che dispongono di meno risorse per ottenere rispetto. Anche nello sport
/ 11.11.2019
di Giancarlo Dionisio

Al mondo ci sono bimbi che cuciono magliette per dodici ore al giorno, e altri che le indossano, poiché i loro genitori possono permettersi di acquistarle. I primi non sanno che cosa significhi fare sport; che cosa voglia dire diventare un campione. Nessuno li incoraggia. Nessuno li spinge. Nessuno pretende dei risultati da parte loro.

I secondi si divertono. Giocano, passano da uno sport all’altro: tennis d’estate, sci d’inverno, le attività di gruppo, per socializzare. Bimbi sereni, baciati dalla sorte, fino a quando il sogno di potersi divertire, si infrange contro le smanie di un padre o di una madre che vedono in loro il futuro Roger Federer, o Leo Messi o Mikaela Shiffrin.

In una società in cui c’è una giornata dedicata a tutto e a tutti – dalla castagna, all’orologio a cucù, allo gnocco – ci sta che chi organizza la Notte del Racconto ponga quest’anno l’accento sui diritti dei ragazzi. Qualcuno potrebbe storcere il naso. «I giovani di oggi sono dei viziatoni, che diritti e diritti! Che si assumano le loro responsabilità, e assolvano il loro compito, che è quello di obbedire, studiare e ascoltare chi ha più esperienza di loro». Sono solo parzialmente d’accordo. 

È giusto che si impegnino e studino, se ne hanno l’opportunità, perbacco, tuttavia il rapporto genitori-figli-sport è più contorto di quanto non si immagini. Se n’è reso conto l’Unicef, che già nel 1992 aveva promulgato la «Carta dei diritti del bambino nello sport». Lo ribadisce a chiare lettere il Panathlon International, club di servizio con finalità etiche, che da alcuni anni insiste nel fare luce su alcune pericolose derive dello sport giovanile. 

L’undicesimo e ultimo punto della Carta promuove il Diritto di non essere un campione. Può sembrare banale, ma è la sintesi perfetta di tutti gli altri punti. Non dover essere il numero 1 significa allenarsi divertendosi, in un ambiente sano, con dei carichi adeguati all’età e alle proprie capacità, in assoluta sicurezza, seguiti da adulti capaci e responsabili, eccetera. 

Se poi un ragazzino, in modo naturale, riesce ad allenarsi più di altri, col sorriso sulle labbra, senza correre rischi, senza danneggiare il fisico, che lo faccia. Probabilmente è un predestinato. Sono convinto che nel 99 per cento dei casi un giovane sia consapevole dei propri mezzi atletici, tecnici e tattici. Sa perfettamente che, allenandosi meglio e di più, può compiere qualche passo in avanti, ma percepisce anche i propri limiti, che sono figli anche della sua disponibilità al sacrificio e alla sofferenza. 

Luigi sa che non potrà scalare il mondo del calcio oltre le leghe regionali, Alberto intuisce che non correrà mai i 400 metri piani in meno di 48 secondi, Giorgia è consapevole che il terzo posto ai campionati ticinesi di attrezzistica equivale per lei a un oro olimpico. Tutti e tre sanno che parecchi loro coetanei sono più forti, più veloci, più efficaci di loro, ma non ne fanno un dramma. Sono felici, soddisfatti. Hanno lavorato, hanno sudato, ma non si sono fatti del male. 

Con loro, di conseguenza, sono soddisfatti anche i genitori. Hanno sostenuto i figli, li hanno stimolati, guidati, consigliati, ma non hanno mai preteso nulla, se non serietà e impegno. Questa è la situazione ideale, che trova la sua massima espressione in un fenomeno planetario come Roger Federer, il quale ha costruito la sua immagine e il suo mito, con un’apparente facilità, con leggerezza, seguito con discrezione da una famiglia che lo ha lasciato fare. 

Purtroppo non è sempre così. Il mondo dello sport pullula di brutte storie. Sia ai massimi livelli, pensate alle vicende di André Agassi o Patty Schnyder, sia a livelli di gran lunga più bassi. È di poche settimane fa l’ennesima rissa che ha visto coinvolti anche dei genitori. La partita di calcio fra gli allievi B2 del Coldrerio e del Rapid Lugano si è rivelata molto tesa sin dal primo minuto, ma a esacerbare gli animi sono stati soprattutto alcuni genitori. Lungi da me il volermi schierare da una parte o dall’altra. Non ero presente. Dalle cronache emerge che la scintilla che ha scatenato la bagarre sia stato un calcio affibbiato, da tergo, da un genitore a un ragazzino. Gli educatori, a giusta ragione, battono il chiodo sul fatto che l’adulto debba fungere da modello.

Il senso di tristezza, che provo nel leggere di situazioni come quella appena descritta è rivolto soprattutto ai figli. Che cosa si porteranno a casa da questa vicenda? Che l’avversario è un nemico? Che se non riesci a vincere, ti puoi fare giustizia con la forza? Che quando non ce la fai tu, c’è sempre un padre gasato pronto a spianarti la strada? Io spero quantomeno che i figli abbiano provato un senso di vergogna per il comportamento dei loro genitori. Se così fosse, potremmo perlomeno coltivare la speranza che tra 15-20 anni, quando saranno loro a bordo campo, la storia non si ripeterà.