Wolff, il Trump dei giornalisti

/ 22.01.2018
di Paola Peduzzi

Michael Wolff è l’uomo del momento, il suo libro Fire and Fury è bestseller negli Stati Uniti, il pdf piratato del libro circola come una catena di Sant’Antonio e un autore canadese, Randall Hansen, vive di rendita: otto anni fa ha scritto un libro storico che ha la fortuna di intitolarsi come il saggio di Wolff, e molti utenti online si sono confusi nell’acquisto. Da quando sono uscite le anticipazioni di Fire and Fury, mentre ancora smaltivamo il cenone di Capodanno, la politica americana è stata dominata dalle rivelazioni contenute nel libro. Donald Trump, che è il protagonista, è furibondo, ha attaccato il libro, l’autore, l’editore, le fonti anonime, tutti quelli che gli sono passati a tiro, e così ha contribuito a sancirne il successo. Ma se Trump continua comunque a essere il presidente degli Stati Uniti, piaccia o no, Steve Bannon, il guru del trumpismo, ha perso tutto in questa operazione editoriale. Ha confidato a Wolff una cattiveria di troppo sulla famiglia Trump e nel giro di pochi giorni si è ritrovato spodestato dal suo trono a Breitbart News, il sito che più di ogni altro ha contribuito a consolidare l’immaginario trumpiano. La famiglia Mercer, finanziatrice tardiva ma generosissima di Bannon e di Trump, ha preteso la deposizione del suo ex protetto, e per lui non c’è stata scelta. Ora che Bannon è stato convocato a deporre davanti all’inchiesta del Russiagate, che indaga sulla relazione pericolosa tra Trump e la Russia putiniana, avremo la misura di quanto può essere grande, nella politica e nell’amicizia, l’istinto di vendetta.

Ma che cosa c’è scritto in Fury and Fire? Che la Casa Bianca è un posto di lavoro disfunzionale in cui anche le procedure più rodate sono saltate, in cui si litiga molto, si prende molto in giro chiunque e ci si divide in due attività principali: accreditarsi presso la corte trumpiana stretta assecondando il presidente e fare di tutto per salvare il mondo dagli eccessi del trumpismo – o trumpismo tout court, che è già un eccesso per sé. Nulla di rivoluzionario insomma, che le cose non girassero in modo armonico e regolare alla Casa Bianca ce ne eravamo accorti da un po’. Molti dettagli – conversazioni, ricostruzioni, aneddoti – sono invece nuovi, ma hanno un grande difetto: non sono verificati. Con il suo cinico candore lo stesso Wolff ha ammesso che quando la storia è troppo bella, i controlli incrociati finiscono per rovinarla. È uno spettacolo questo, diamine, godiamocelo senza troppo puntiglio. Il metodo Wolff è stato rodato nel tempo: lui è il biografo di Rupert Murdoch, il tycoon australiano dell’editoria, al quale ha dedicato un libro nel 2008. Anche allora, alla pubblicazione, ci furono molte polemiche: Wolff aveva avuto un accesso straordinario al mondo murdocchiano e se n’era uscito con molti dettagli non verificati ma gustosissimi sull’impero dello Squalo. Poi la rabbia è passata e Wolff è rimasto uno degli interpreti più ascoltati, ancorché talvolta impreciso e quasi sempre catastrofico, dell’universo dei Murdoch.

Poiché c’è una certa consuetudine tra Rupert Murdoch e Trump – all’inizio del 2016 non si prendevano molto, poi si sono avvicinati, ora si dice che si vedono o parlano più volte alla settimana – molti si chiedono perché il primo non abbia avvertito il secondo del pericolo di invitare Wolff alla propria corte. Una leggerezza? Difficile crederlo: evidentemente andava bene così. Anche perché Wolff ha giocato perfettamente le sue carte, pubblicando nei mesi della sua ricerca per il libro articoli benevoli nei confronti della Casa Bianca e ingaggiando liti con i colleghi giornalisti a suo avviso troppo duri e pregiudizievoli nei confronti di Trump. Poi ha pubblicato un libro durissimo e pregiudizievole e gli altri giornalisti hanno iniziato a fare i precisini: il racconto generale è corretto, ma i dettagli no. Wolff si è difeso, dicendo che possono esserci imprecisioni ma che la ragione di tanto livore è un’altra: l’invidia. Wolff ha aperto la stagione dei libri-retroscena su Trump in modo scoppiettante, ora mantenere questo ritmo non sarà facile, e i suoi colleghi lo sanno. Come ce l’abbia fatta, lui così spregiudicato e sostanzialmente antipatico ai più, lui che ha riportato aneddoti curiosi per mantenere alti interessi e voyeurismo, resterà materia di dibattito nel ristretto mondo dei giornalisti. E in questo Wolff è la sintesi perfetta del trumpismo, il «Trump dei giornalisti», come hanno detto alcuni: contano lo spettacolo, il divertimento, la narrazione, il senso complessivo, un po’ di rivoluzione e un po’ di circo, tantissimo stupore anche. La verità lasciamola ai noiosi.