Villa De Vecchi a Cortenova

/ 13.11.2017
di Oliver Scharpf

Considerata una delle più belle ville stregate al mondo, nota all’epoca anche come Casa Rossa, Villa De Vecchi si trova in Valsassina. Docile valle dietro le quinte del ramo lacustre di Lecco dove ho preso la corriera azzurra che mi lascia ora sulla strada, sopra il paese di Cortenova. Avvisto «la villa dei fantasmi» come la chiamano da queste parti, dal sagrato della chiesa, alle dieci e mezza. È sul versante opposto, sulla sponda destra della Pioverna. In disparte, laggiù a ridosso delle pinete, già racconta qualcosa della sua speciale solitudine. Villa De Vecchi deve il suo nome a Felice De Vecchi (1816-1862): eroe risorgimentale milanese, pittore amatoriale, viaggiatore d’Oriente che l’ha desiderata così e proprio lì.

Un quarto d’ora neanche e sono sulla provinciale, appaiono tre finestre sventrate e un oblò all’ultimo piano. Bindo, un cartello stradale indica questa frazione di Cortenova. Passato un torrentello in secca, attraverso la strada e dal posteggio parte un sentierino che sfocia fulmineo su una strada sterrata. Grandi conifere coprono la visuale, dopo pochi passi ecco però che si apre uno squarcio di grazia: Villa De Vecchi (476 m) è là, in fondo al prato, in tutta la sua elegante resilienza. Quel che resta del rosso non è moltissimo, ma le fiam-mate rosso pompeiano slavato rimaste, risaltano sullo sfondo stonacato. E mi ricordano un po’ certi Cy Twombly. Una pianta rampicante invade due terzi della facciata principale. La pace mattutina di novembre è deturpata solo dalla Melesi, fabbrica di pezzi forgiati per piattaforme petrolifere. Lassù spolverata di neve domina la Grigna settentrionale, detta Grignone. Spicca l’ultimo piano: una specie di torretta arretrata, quasi come un’altana innestata al centro, con tanto di pinnacoli. Stucchi decorativi in gesso dal taglio moresco coronano le finestre. Due su tre sono state depredate e mostrano i mattoni smangiati.

Villa de Vecchi è in completa rovina, ma pensavo peggio. Mi aspettavo un rudere, invece questa dimora eclettica costruita nel 1856 e abbandonata da più di mezzo secolo, è ancora dignitosamente in piedi. È stata disegnata da Alessandro Sidoli (1812-1855): sfortunato architetto cremonese misconosciuto che non l’ha vista finita. Vinse il concorso per il cimitero monumentale di Milano ma viene defraudato; maneggi politici premiano il progetto di un mediocre architetto più famoso di lui. Monumentali e argentei i tre cedri dell’Himalaya a ovest di questa atipica casa neorinascimentale in località Campiano, presso Bindo di Cortenova. Dove fino a pochi anni fa, se ci si avvicinava la sera tardi o di notte, si sentiva qualcuno dentro suonare il piano. Due cartelli di stop, con su divieto di accesso eccetera sono inchiodati alla corteccia di secolari conifere. Il pratone di facile accesso sembra però un invito. L’erba è bagnata di rugiada. Avvicinandosi si vede la facciata sud-est molto più rossa. Si notano gli angoli smussati dove da sotto la rampicante, fa capolino una finestra. La pianta perciò è ottagonale. In cima una scritta spray: Franci ti amo. Al pianoterra uno squarcio mostra la graziosa pietra rossastra presa sul letto del torrente Rossiga. Una rete arrugginita di quelle per il cemento armato percorre tutto il perimetro della casa infestata con regolarità dai ghostbusters.

Sul retro un varco, entro. Le mura sono piene di scritte impubblicabili; i soffitti a volta, stuccati. Affreschi ormai scoloriti adornavano queste stanze sciacallate. Un pianoforte-relitto è lì nel salone. Non mi avventuro troppo perché in agosto «Il Giorno» edizione di Lecco titolava Crollo nella villa dei fantasmi: ferita cacciatrice del brivido. «Cede una scala. Diciassettenne è grave in ospedale» diceva poi il cappello introduttivo. La villeggiatura estiva dagli eredi De Vecchi dura fino al 1938, da lì via fioriscono le storie di fantasmi. Una raccontava del fantasma di Carolina De Vecchi, moglie di Felice, uccisa con ventisette coltellate mentre suonava il piano. La figlia, impazzita, sarebbe fuggita nella pineta qui alle spalle e mai più ritrovata. Messe nere poi, si diceva, qui erano di casa. Ma anche le morti naturali afferma Giuseppe Negri, ultraottantenne nipote degli ultimi custodi, in una intervista di alcuni anni fa al «Corriere della Sera», smentendo così fantasiosi fatti di sangue irrisolti. Del resto, decifrando a fatica una scritta dell’epoca affrescata su un gagliardetto turchese, si legge questo motto a lettere d’oro: più val un pan con amore che un cappone con dolore.

Sul grande prato scenico continuo a voltarmi per vedere ancora la villa insalvabile ai vertici dell’abbandonologia. Incrollabile forse, il capolavoro di Alessandro Sidoli svaligiato dai preziosi ricordi riportati dal lungo viaggio in Oriente di Felice De Vecchi, mi ricorda Jake La Motta. Il pugile scomparso non da molto a novantasei anni che non voleva mai andare giù al tappeto. Mi volto di nuovo, stregato da questa villa valsassinese unica che va meravigliosamente in malora.