Villa Carlotta a Tremezzo

/ 16.04.2018
di Oliver Scharpf

Oggi un classico delle gite primaverili, tappa un tempo dei viaggiatori del Grand Tour tra i quali i soliti Stendhal e Flaubert citati fino alla nausea e ora meta forse un po’ tanto turistica, di certo non originalissima. Eppure bando ai pregiudizi e agli snobismi di un avventuriero da divano a volte al limite dell’oblomovismo: non ci sono mai stato e un giro al lago di Como male non fa. Speriamo solo che non ci sia troppa gente. Guarda caso, proprio ora, in un bar di Menaggio, leggo su «La Provincia» che l’anno scorso ci sono stati duecentoventicinquemila visitatori, mentre quest’anno nel solo weekend pasquale, quattromilacinquantuno.

Appena sceso dal bus eccola lì dall’altra parte della strada: dimora barocca sobria con facciata color rosacrema pallidissimo, scalinata a tenaglia, fontana in primo piano, cancello nero con su una C dorata. Villa Carlotta a Tremezzo (212 m) – la più famosa tra le ville lariane visitabili, nota soprattutto per la fioritura del mare di azalee e rododendri e per la copia di Amore e Psiche del Canova – deve il suo nome alla principessa Carlotta di Prussia (1831-1855). È il regalo di nozze dei suoi genitori nel maggio 1850, ma la sua storia inizia intorno al 1690 per desiderio del marchese Giorgio Clerici (1648-1736). Il benvenuto lo dà Arione di Metimna a cavalcioni di un delfino dalla cui bocca zampilla un getto d’acqua. Raffigurato qui come un putto alato, il cantore e citarista greco inventore tra l’altro del ditirambo, minacciato di morte dai marinai durante il viaggio tra Taranto e Corinto, viene infatti salvato in mare da un delfino. Nello specchio d’acqua della fontana settecentesca vivono svogliati dei pesciolini rossi; sul fondo, immobili come nel gioco delle belle statuine, diverse rane.

Salgo le scale e alla prima grotta in rocaille, un’ammucchiata di tartarughe sorprende. Becco subito lo stretto viale ghiaioso con le rare camelie ultracentenarie, altissime e potate come siepi. Dovrebbero risalire alla passione botanica del precoce vedovo della principessa Carlotta: il duca Georg II von Sachsen-Meiningen (1826-1914). Del resto è nella seconda metà dell’Ottocento che in Europa si scatena silenziosamente la cameliomania. Non passa inosservato il bel rosa sgargiante della varietà Sarah Frost, ibridata in Pennsylvania nel 1841 e battezzata così in onore di una ballerina mormone del Missouri. Un giardiniere mi conferma l’età dei gloriosi esemplari di questo genere chiamato così da Linneo in onore di Georg Joseph Kamel, missionario gesuita e botanico ceco. E mi dice che «dietro la villa ci sono le altre camelie piantate dal duca».

Intanto percorro i tunnel di agrumi. Salgo gli ultimi scalini ed entro in casa, chirurgico vado diretto a vedere «Amore e Psiche che si abbracciano: momento di azione cavato dalla fiaba dell’asino d’oro di Apuleio» come scrisse lo stesso Antonio Canova. Grazia infinita, mi siedo su una poltroncina di velluto vinaccia. Pezzo unico in marmo di Carrara – tranne le ali angeliche – sbarcato qui grazie al proprietario dell’epoca, braccio destro di Napoleone e artefice di quasi tutta la collezione d’arte presente: Giambattista Sommariva (1762-1826). L’autore è Adamo Tadolini (1788-1868), allievo prediletto da Canova al quale è stato regalato il modello in gesso con l’autorizzazione a farne quante copie ne volesse del suo capolavoro esposto al Louvre. Creduta per anni l’originale, questa leggiadra scultura è nata tra il 1818 e il 1820 e poggia ora su un tavolino ovale di vetro. Si potrebbe scrivere un articolo solo sull’attimo catturato con il marmo che precede il bacio che risveglierà Psiche dal mortale sonno. E stare qui almeno mezzora, sospesi e storditi un pomeriggio di metà aprile.

Le finestre aperte creano una corrente d’aria rara in altri musei, fuori fa capolino il cremisi di alcune camelie. Le mura sono di un gradevole lattementa. Già che ci sono butto un occhio, nella stanza accanto, al celebre Ultimo bacio di Romeo e Giulietta (1823) di Francesco Hayez. «Ah, der Kuss» sussurra una signora alla sua amica. C’è gente ma non troppa, e poi gli otto ettari di giardino botanico aiutano a disperdere i visitatori. Non è solo questione di vastità però, più che altro è il modo in cui è congegnato questo giardino ibrido, metà all’inglese metà all’italiana: si trova inattesa, un’intimità con il luogo. Meritevoli inoltre le vecchie panchine sinuose per abbracciare il lago, la penisola di Bellagio, le Grigne innevate alle spalle. Ad ogni modo la folla arriverà tra non molto per le azalee potate appositamente in modo ondivago. Controllo sul taccuino le camelie ottocentesche annotate prima di partire: principessa Clotilde, Oscar Borrini, Contessa Tozzoni. L’immediatezza però supera la preparazione e rimango rapito dai petali della Camellia japonica Maria Bagnasco. Rosa tenue screziato occasionalmente di rosso distratto, tipo sciroppo di lamponi. Variegature delicate derivate, credo, da una mutazione genetica non rara per le camelie e molto apprezzate dagli amatori che le chiamano sport. Passatempo, adesso, di sicuro.