Veracqua riavrà l’acqua?

/ 21.11.2016
di Ovidio Biffi

Torno in valle, a Sagno, a ricordare i defunti di famiglia. La salita è quasi terminata, con la strada che compie una curva a semicerchio prima di superare l’ultima dorsale e arrivare all’abitato; anzi: al cimitero. Di solito quel tratto pianeggiante allarga il cuore. È un pianoro che inizia alla grotta della Madonnina, sotto il colle di San Martino, poi prosegue sul fondo di un ampio anfiteatro naturale coi prati che arrivano fin dove iniziano le prime casette residenziali e i pini. Ma il fiato stavolta viene bloccato: i prati sono soffocati da cataste di alberi, tronchi diritti che probabilmente andranno in segheria, poi quelli più piccoli e i ceppi sradicati, con benne e macchinari a spiegare quel che accade. L’anfiteatro è momentaneamente trasformato in deposito per alberi e «farciamm» che la furia della tromba d’aria di agosto ha lasciato sul fianco della montagna, che tecnici e forestali stanno ora ripulendo.

Il primo pensiero è di sollievo: l’ultima volta che era capitato in valle, a Bruzella, non erano stati così fortunati, dato che la furia del vento invece di disastrare le selve aveva scoperchiato case e chiesa. Non che i danni siano poca cosa, stavolta. Non so quantificarli economicamente. Dopo un attimo l’amaro in bocca cede il posto a un retrogusto meno sgradevole. In fondo, mi sono detto mentre proseguivo la strada, la natura non è malvagia come un tempo. A distanza di poche settimane, anche il danno diventa comunque opportunità di lavoro, per imprese e operai. Forse resterà qualche «imprevisto» nei bilanci comunali, ma di sicuro subentreranno anche sussidi e aiuti a mitigare le ferite contabili. A questo punto il pensiero corre alle altre ferite, quelle alla natura, ad un bosco forse non pregiato, ma comunque conservativo di un ambiente particolare. Non credo però che rimarranno segni del disastro: quegli alberi di sicuro verranno sostituiti e, tempo qualche anno, ricresceranno.

L’abitato di Sagno, con diverse frazioni, è adagiato in una vasta conca, quella che la tromba d’aria salendo dal basso ha imboccato per sfogarsi praticamente al centro, forse perché non trovava più sbocchi. Quel punto della montagna da decenni è segnato dal gran lavoro di rimboschimento che negli anni Sessanta ha toccato tutta la fascia superiore del comune, con l’intento di supplire alla morìa di castagni colpiti dal cancro con piante più resistenti. Molti i castagni abbattuti in quei lontani anni, ma molti di più gli alberi messi a dimora proprio sino al versante della piantagione flagellato dalla tempesta. Quel punto in pratica è diventato anche una sorta di snodo viario in cui convergono le nuove strade costruite sopra il nucleo e attorno al paese, l’antica mulattiera che saliva verso i prati alti del Bisbino e numerosi sentieri, compreso quel «senterùn», che dagli anni Quaranta e per quasi un ventennio è stato una sorta di autostrada per i peduli dei contrabbandieri italiani di riso (in arrivo) e sigarette (in partenza). Quando cantone e comune decisero di risanare le selve castanili e quel luogo divenne la punta estrema dell’intervento venne eliminato il tratto iniziale della mulattiera e soprattutto della radura dove confluivano i vari sentieri. Allora nessuno, credo, si lamentò (perbacco, si curavano le selve, si creava addirittura un vivaio forestale in valle, come si faceva a protestare?). Ma dopo qualche tempo, passando sulla strada nuova o cercando i nuovi accessi ai sentieri e alla mulattiera di un tempo, ci si rese conto che era sparito uno dei luoghi più bucolici del paese: Veracqua.

Nel punto alto della radura, alla convergenza dei due crinali della conca, c’era un piccolo pozzo d’acqua da cui partiva un rigagnolo che poco più sotto – dove da bambini scavavamo la creta per modellare statuine e piccoli vasi a scuola –, si incanalava e diventava un riale. Cosa da poco, ma  abbastanza forte da tracciare l’alveo di una valle lungo la montagna che da Sagno con 400 metri di dislivello arriva alla periferia di Vacallo. Ora, e da decenni, Veracqua è senz’acqua e il riale è secco. In alto l’acqua è sparita e da sotto il paese scorre solo con i temporali, creando biotopi in cui crescono persino spugnole. Con i ricordi affiora un’inaspettata scoperta: i lunghi e perfetti tronchi che ho visto impilati non erano solo «protettori» della montagna, erano anche pompe idrovore che succhiavano acqua dal terreno (di sicuro ognuno più di 8000 litri all’anno; su un mezzo ettaro alberato, oltre 1 milione di litri…)! E penso: ora che il vento li ha divelti, chissà se la «mia» Veracqua riuscirà ancora ad avere la sua sorgente e magari anche un po’ di quella agreste bellezza sacrificata, senza rendersene conto, qualche decennio fa?