Venti globali nel voto locale

/ 01.04.2019
di Orazio Martinetti

L’otto aprile sapremo se la ripresa delle manifestazioni per la tutela del clima avrà premiato i Verdi e, più in generale, i candidati che hanno inserito nella loro agenda le questioni ambientali. In passato questo rimbalzo c’è stato. Nel 1986, l’anno nero della catastrofe di Chernobyl e del rogo di Schweizerhalle, tutto il paese ebbe un sussulto. Si ritenne che fosse giunto il momento di avviare l’abbandono dell’energia nucleare per puntare sulle rinnovabili; parecchi governi misero a punto programmi volti a limitare le fonti di inquinamento. Anche nel campo della scienza economica emersero ripensamenti e voci critiche, come quella del francese Serge Latouche che si fece apostolo di un modello alternativo, non più basato sulla crescita infinita ma sull’uso responsabile delle (scarse) risorse disponibili. Nell’opinione pubblica più avvertita fece breccia il termine «decrescita», ossia la proposta di invertire la marcia per far spazio ad una disposizione mentale fondata sul rispetto e sulla frugalità. Pian piano la decrescita ha fatto proseliti, anche se rimane ai margini delle correnti dominanti. Le quali continuano a puntare sul Pil (Prodotto interno lordo) come misura del benessere di una determinata collettività.

La mobilitazione per il clima ha come protagonisti i giovani. E questo è incoraggiante, un motivo di speranza. Le vecchie generazioni hanno lasciato in eredità ai discendenti un mondo sempre più deturpato e lercio, una cloaca di gas mefitici e di plastiche che la natura riuscirà a smaltire solo nel giro di secoli, se non di millenni. Le facce allegre che scendono in piazza non sono condizionate dalle dottrine dei loro padri e non intendono creare miti o erigere monumenti. Non ricorrono alla violenza, non agitano in aria libretti rossi, ma invocano una conversione che parte da ogni singolo individuo. Fanno appello insomma alla coscienza di ognuno al fine di correggere o mutare lo stile di vita: meno viaggi inutili, meno sprechi, meno imballaggi; no all’economia dello scialo e sì all’economia circolare basata sul riciclaggio. I prossimi mesi ci diranno se questi movimenti metteranno radici o si risolveranno in un fuoco di paglia. Spesso, negli anni post ’68, tanti militanti seriamente intenzionati a cambiare il mondo hanno poi indossato il completo grigio dei notai e dei banchieri.

E veniamo alla campagna elettorale che si avvia alla conclusione. È stata definita «piatta» e «fredda», priva di passioni, di slanci, di originalità. Non c’è da stupirsi. Sono i sentimenti e gli umori che imbevono il nostro tempo dopo il crollo delle grandi narrazioni ideologiche che miravano, appunto, a ribaltare l’ordine esistente. Ora gli obiettivi sono più circoscritti e anche più vaghi. Si ha come l’impressione che le questioni che più angustiano la cittadinanza – sanità, scuola, traffico, remunerazione del lavoro – non siano risolvibili con semplici slogan o con ricette cantonalistiche, come se il Ticino vivesse in un regime di semi-autarchia e non dovesse fare i conti con i suoi più potenti vicini. Si intuisce che il quadro è mutato, che Berna e Bruxelles hanno col tempo guadagnato terreno e intaccato, restringendolo, il raggio d’azione dei poteri locali.

Un’ultima osservazione: questa è anche la prima campagna senza il «Giornale del Popolo», quotidiano indipendente dai partiti ma non insensibile all’affermazione dei valori cristiani. Il GdP è stato a lungo il giornale più diffuso nelle valli, strumento nelle mani della Diocesi e dunque delle parrocchie. Ovvio quindi che finisse per appoggiare il partito che esibiva negli statuti e nei programmi i princìpi della Chiesa, il fattore «C», fondamento e faro del Partito cattolico-conservatore, oggi Ppd. Ora questo «endorsement» (va precisato: non sempre accordato senza turarsi il naso, soprattutto dopo la lunga direzione di don Leber) è venuto meno. La flessione demografica delle valli, la mobilità, la secolarizzazione della società, la crisi della stampa hanno sottratto al Ppd una preziosa gruccia.

Quello dell’informazione è un assillo costante per gli attori politici. La scomparsa delle testate di partito ha innescato un cortocircuito che ha provocato una generale afonia. I settimanali o i mensili politicamente schierati raggiungono solo gli iscritti, oltre questo perimetro non vanno. Le reti sociali non danno garanzie, e in ogni caso non mietono i consensi che la retorica sulle nuove tecnologie assicura (sovente trasmettono solo insulti). Speriamo che l’impoverimento della stampa (ormai ridotta al duopolio «Corriere del Ticino»La Regione», ovvero centro-destra – centro-sinistra) non incrementi la platea, già abbastanza folta, degli astensionisti.