Uomini e topi

/ 09.03.2020
di Paolo Di Stefano

Un’amica ottimista mi ha detto: almeno la gente comincerà finalmente a leggere… Ottimista, appunto. Le librerie sono al collasso. Come se non bastasse il normale malessere, dovuto soprattutto all’invadenza dell’e-commerce, si è aggiunto il virus. Nessuna «onesta brigata» decameroniana si ritirerà in collina a raccontarsi novelle (e tanto meno a leggere libri) per ammazzare il tempo, come accadde ai dieci giovani di Boccaccio: «impaurisco e tutti i capelli addosso mi sento arricciare», disse Pampinea invitando tutti, per «la conservazione della nostra vita», a «prendere quegli rimedi che noi possiamo».

Siamo nel 1348 e l’Europa viene investita dalla «mortifera pestilenza» partita da un focolaio orientale e diffusa via mare attraverso le città portuali: in Italia, pare, da Messina, risalendo lungo lo Stivale, poi da Genova era sbarcata a Marsiglia, da dove aveva invaso la Francia, mentre da Venezia era giunta in Emilia e a Firenze. Nell’arco di cinque anni l’epidemia era diventata una delle più disastrose pandemie della storia, estesa all’intero continente europeo, dal Mediterraneo alla Scandinavia ai Balcani, uccidendo un terzo della popolazione.

A Firenze iniziò in primavera e rimase fino al tardo autunno. Per Boccaccio quella «pestifera infermità» fu «da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata». «Il tempo, come si suol dire, ci è scivolato tra le dita: le nostre antiche speranze sono sepolte con gli amici. È il 1348 che ci ha resi poveri e soli», scriverà Petrarca a bilancio di quella catastrofe umana. Nell’introduzione alla prima giornata del Decameron, Pampinea dice di non sentire altro che frasi tipo: «I cotali son morti» e «Gli altretali sono per morire». Infatti Boccaccio vide morire la matrigna Bice, lo zio Vanni e suo padre Boccaccino, restando solo con Iacopo, il suo fratello minore, di otto o nove anni. Tutti i suoi sentimenti funesti li avrebbe messi in bocca alla stessa Pampinea, la quale dice di vedere ovunque «l’ombra di coloro che sono trapassati». È terrorizzata lei ed è terrorizzato messer Giovanni, che si mette a scrivere il suo capolavoro ispirandosi a quella sofferta vicenda dove propone un rimedio alla psicosi generale: la lettura.

Anche se temo che l’amica ottimista esageri nell’ottimismo, a chi vuol darle ragione consiglio la recente, straordinaria biografia di Boccaccio scritta da Marco Santagata (Boccaccio. Fragilità di un genio, Mondadori, 5½ per la capacità di racconto e per la notevole messe di documenti in nota e nelle annotazioni finali). L’amica ottimista non ha torto almeno su un aspetto: sono cresciute le vendite (on line) di alcuni classici. Non il Decameron e neanche I promessi sposi, che pure sull’epidemia, sul contagio, sui lazzaretti e sugli untori avrebbero parecchio da dirci, anche se Manzoni non ne fu testimone diretto visto che narrò una storia avvenuta nel 1630, due secoli prima di lui.

I due romanzi entrati in classifica al tempo del Covid19 sono: Cecità di José Saramago e La peste di Albert Camus. Due classici novecenteschi dell’epidemia. Il primo romanzo (5+) si apre con un uomo che, fermo al semaforo sulla sua auto, di colpo non vede più nulla se non uno schermo bianco. È il primo segno di un morbo a cui il medico non riesce a dare alcuna spiegazione, salvo scoprire ben presto che ne è stato colpito anche lui esattamente come i pazienti seduti in sala d’attesa. Non appena la cecità bianca coinvolge la popolazione, gli ammalati vengono messi in quarantena dentro vecchi manicomi da cui non potranno uscire pena la fucilazione come fossero prigionieri di un lager: e qui scatta la genialità di Saramago, che immagina come una società intera possa reagire di fronte a un’epidemia di cecità e soprattutto a un potere che di colpo, nell’angoscia, rivela il suo volto brutale e totalitario.

Distopia orwelliana, in cui nessun personaggio ha un nome proprio. E camusiana. La peste di Camus (6–) è decisamente il modello di Saramago: ogni volta che abbiamo a che fare con un flagello, finisce che ci interroghiamo sulle grandi questioni. Potrebbe accadere anche per il coronavirus, chissà. Il male di Camus è un’allegoria: raccontando quella peste immaginaria, lo scrittore francese allude all’Europa caduta sotto il nazismo e, di conseguenza – come ha scritto Carlo Bo – vuole «illustrare il comportamento degli uomini, quando la storia li chiama a dare delle risposte assolute e insuperabili».

Sempre una faccenda di etica, pur avendo a che fare con i topi (il governatore del Veneto, che ha accusato i cinesi di mangiare topi vivi, avrà mai letto La peste?). Il dottor Bernard Rieux, che trova un ratto morto davanti alla soglia di casa, decide di impegnarsi a combattere il male in scuole e ospedali. Quando gli chiedono che cos’è l’onestà, non ci pensa due volte: «Cosa sia in genere, non lo so: ma nel mio caso, so che consiste nel fare il mio mestiere».

Se davvero La peste sarà un bestseller nelle prossime settimane, Rieux diventerà un eroe del nostro tempo. Vuoi vedere che aveva ragione la mia amica ottimista?