Elezioni cantonali 2019: ha dunque prevalso la stabilità, come più di un commentatore ha sostenuto? Il Ticino cantone immobile, vischioso, ancorato alla tradizione, che recepisce tardi i mutamenti che altrove provocano rivolte e sconquassi? A prima vista sembra questa un’interpretazione condivisibile. Nessun terremoto, solo piccole scosse di assestamento che non hanno alterato gli equilibri politici fondamentali.
A prima vista, abbiamo detto; in realtà qualcosa si è mosso anche il 7 aprile. Movimenti sotterranei come per esempio l’avanzata della rappresentanza femminile (onda rosa), o come la rigenerazione degli ecologisti, giunti all’appuntamento dopo molti litigi interni e una deputazione spaccata (onda verde). O come, infine, la progressione delle frange di opposizione, posizionate ai due estremi opposti dell’«arco costituzionale»: a sinistra il MpS (eredi della Lega marxista rivoluzionaria) e il Partito comunista (onda rossa); a destra, l’Unione democratica di centro, a lungo rimasta confinata nel cono d’ombra della Lega (onda grigia).
Tra quattro anni sapremo se tutte queste piccole onde provocheranno una mareggiata, oppure no. Molto dipenderà da come evolverà il quadro nazionale e internazionale, dall’esito delle ormai imminenti elezioni europee, dalla piega che assumeranno le guerre commerciali in atto e, non da ultimo, dal grado di vitalità che le singole aree economiche sapranno esprimere.
Il paesaggio politico ticinese è sempre stato una carta assorbente. Tutto quanto avveniva oltre i confini cantonali si ripercuoteva immediatamente all’interno, influenzando orientamenti, scelte programmatiche e persino il vocabolario. Pensiamo all’Ottocento: turbolento, punteggiato di risse, con la politica prigioniera della logica amico-nemico. Oppure al Novecento, secolo «breve» ma tragico, avvelenato da ideologie contrapposte e devastato da due tremende guerre mondiali. Il regime consociativo, inaugurato nel 1922 con l’ingresso del socialista Canevascini nella compagine governativa, è rimasto tale fino ai nostri giorni, ma il suo cammino non è mai stato quieto come forse sperava in cuor suo l’inventore della formula, il cattolico-conservatore Giuseppe Cattori. Il primo serio banco di prova l’offrì l’ascesa del fascismo. La parte moderata (cattolici e liberali) inclinava a giudicare positivamente la figura di Mussolini e le sue opere volte a riportare l’ordine nel paese. Ma proprio questa condiscendenza fu all’origine del dissidio ideale che nel 1934 portò alla nascita del Partito liberale radicale democratico ticinese, la frangia giovanile del movimento liberale attiva fin dal 1926, dalle colonne del giornale «Avanguardia». Furono proprio questi giovani antifascisti ad allertare l’opinione pubblica, e a denunciare pubblicamente le malefatte del Duce. La ricomposizione tra i due tronconi avvenne solo a guerra finita, nel 1946, sullo slancio di una vittoria morale che subito dopo avrebbe portato all’intesa radico-socialista.
La seconda grande scissione ebbe luogo cinquant’anni fa: il 27 aprile del 1969, a Mendrisio, vide la luce ufficialmente dalla costola intransigente del PST il Partito Socialista Autonomo. Uno sbocco che, anche in questo caso, era stato preparato negli anni precedenti da una testata giornalistica, il periodico «Politica Nuova» fondato nel 1965. Gli anni erano quelli effervescenti dei movimenti giovanili e studenteschi del maggio ’68; di lì a qualche mese, in Italia, sarebbe esploso l’«autunno caldo» dei lavoratori. Al vecchio PST la novella formazione rimproverava di aver smarrito per strada la sua originaria vocazione anticapitalistica. Partito «anti» (anticapitalista e antimperialista), il PSA si proponeva il «rovesciamento della struttura capitalista nella quale siamo inseriti».
Terza rottura: l’avvento della Lega dei Ticinesi, nel 1991. Ancora una volta aveva dissodato il terreno un giornale, «Il Mattino della Domenica». Qui l’obiettivo polemico era la casta, il potere delle grandi famiglie, i funzionari statali aggrappati alla mangiatoia, definiti «fuchi». Fortemente gerarchizzata al suo interno, retta da un «presidente a vita» (Giuliano Bignasca), la Lega riuscì nel giro di pochi anni ad incanalare le insoddisfazioni e le frustrazioni serpeggianti nel paese, e che i partiti tradizionali non avevano saputo intercettare.
Queste, dunque, le tre fratture che hanno movimentato il Novecento politico ticinese, un campo di forze in buona parte riconfermato dalla tornata che abbiamo appena archiviato. E tra quattro anni, cosa succederà? Nel 2023 il corpo elettorale riproporrà il medesimo schema, con le solite, minime variazioni? Troppe le variabili in gioco per arrischiare ora congetture.