Un’Europa da ripensare

/ 27.03.2017
di Peter Schiesser

E ora, dopo le celebrazioni del 25 marzo  per i 60 anni dei Trattati di Roma che diedero i natali alla CEE, l’Unione europea si interroga su ciò che intende diventare, alla luce della profonda crisi in cui è scivolata dallo scoppio della crisi finanziaria mondiale nel 2008, aggravata l’anno scorso dalla Brexit. Un’Europa che va avanti come finora? Che si riduce ad un mero mercato interno? Un’Unione a più velocità? Un’Europa che si limita ad alcuni compiti, restituendo determinate sovranità ai singoli Stati? Oppure un’Unione europea che approfondisce il processo di integrazione?

Questi cinque interrogativi li ha tracciati il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker il 1. marzo e serviranno da base per i dibattiti da cui l’Unione non può più rifuggire, se non vuole correre il rischio di implodere. Ancora prima dell’appuntamento del 25 marzo a Roma, segnali importanti sono arrivati da Parigi e Berlino: sia il presidente francese Hollande, sia la cancelliera tedesca Merkel hanno spezzato una lancia in favore del concetto di un’Europa a più velocità, un concetto tabù fino a ieri. L’Ue deve tornare a crescere, a rafforzare l’integrazione, se non tutti ci riescono o non vogliono, deve potersi formare un nucleo forte di Stati membri che portino avanti il progetto Europa, lasciando la porta aperta agli altri qualora volessero entrarvi successivamente.

Oggi è troppo presto per capire quale cammino l’Ue imboccherà in futuro, ma si possono registrare i segnali che giungono dall’est europeo – e questi sono negativi. Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia temono di venire discriminati, ostacolati nella crescita economica. Bisogna poi chiedersi  che cosa potrebbe significare un’Unione europea a più velocità per l’Eurozona: l’euro varrà solo per i paesi del nucleo centrale? Risorgeranno vecchie valute nazionali?

Ma accanto a quella istituzionale e macro-economica, l’Ue deve affrontare la sfida dei valori e degli ideali di fronte ai montanti nazionalismi e populismi. Deve definire la sua identità, al di là degli obiettivi politico-economici. Le battaglie più urgenti sono le elezioni in diversi paesi chiave. In Olanda è andata abbastanza bene, Geert Wilders ha guadagnato seggi, ma non ha superato il premier Mark Rutte; in Francia i pronostici danno perdente Marine Le Pen al secondo turno (ma non credevamo pure che Donald Trump non sarebbe stato eletto?); in Germania Merkel lotterà contro il socialdemocratico Schulz, ma un occhio è rivolto anche a Frauke Petry e alla sua Aktion für Deutschland; e in Italia, che succederà alle prossime elezioni? L’onda populista è bifronte, in Italia: grillina e leghista. Per chi intende salvare l’Unione europea, sarà importante vincere le contese elettorali, ma sarebbe un errore limitarsi a questo. Perché i populismi, in Europa, non hanno nemmeno troppo bisogno di vincere (anzi: governare li espone alle critiche e all’erosione dei consensi), è sufficiente la loro pressione per influenzare le politiche dei singoli paesi e della stessa Ue: lo si vede nelle politiche verso i migranti, come pure nelle tentazioni protezionistiche.

Ma forse l’Olanda può dare un segnale positivo: alle elezioni è cresciuta la destra populista, ma sono cresciuti anche due partiti che si sono opposti a Wilders da posizioni liberali e progressiste, D66 e GreenLeft (che ha triplicato i seggi). Come in Austria alla fine è diventato presidente un ecologista anziché il candidato della destra populista. I populismi non si vincono scimmiottandoli, ma con visioni solide alternative. L’Ue deve quindi prima chiarire la sua identità, se vuole affrontare con vigore le riforme strutturali che l’attendono.