Nelle prime estati del dopoguerra gli adulti che abitavano in città per andare in vacanza non si allontanavano da casa, al massimo si trasferivano per qualche giorno dai parenti in campagna dando una mano nei campi per ripagare l’ospitalità. Per i ragazzi c’erano le colonie, riservate ai figli degli operai delle grandi fabbriche. Invidiavo un compagno di giochi che, grazie a un padre impiegato nella fabbrica metalmeccanica Way Assauto di Asti (ora scomparsa, dopo essere stata venduta ai cinesi), ogni estate andava in colonia al mare in Liguria, tornandone ricco di racconti favolosi. I miei genitori erano entrambi artigiani: mio padre in una minuscola tipografia e mia madre aveva un negozio da pettinatrice; sfinita dalle mie insistenze, tramite la raccomandazione di una cliente, riuscì a trovarmi un posto nella colonia marina di Arma di Taggia gestita dall’Unione Industriali della provincia di Asti.
Era l’agosto nel 1949, era morto da poco il Grande Torino e io avevo 12 anni. Siamo andati e ritornati in treno, su vagoni riservati, portandoci un corredo di ricambi con un numero cucito sopra per poterli riconoscere. Solo maschi, le bambine ci avevano preceduti nel mese di luglio. L’elemento femminile era rappresentato dalle signorine che ci governavano; studiavano per diventare maestre e in quel modo si guadagnavano la vacanza al mare. Ci ospitava una ex caserma; gironzolando nei cortili, in attesa della lunga camminata che ci avrebbe condotti in fila per due alla spiaggia libera, raccoglievamo da terra dei grossi bossoli (anni dopo, da allievo ufficiale, li avrei riconosciuti come munizioni delle mitragliatrici antiaeree). Qua e là crescevano dei cespugli di ricino; sarebbe stato vietato raccogliere le bacche rosse, le signorine ci spaventavano, dicendo che le capsule erano velenose, ma da sempre per i ragazzi i divieti sono un invito all’azione. Non ricordo che qualcuno dei miei compagni sia stato male per aver ingerito quelle bacche, in compenso nessuno di noi ha mai dovuto ricorrere ai purganti.
Si dormiva in letti singoli, in lunghe camerate; sul fondo era collocato il letto della signorina responsabile della nostra squadra, circondato da un paravento bianco, come quello che mettono attorno ai pazienti morti nelle corsie degli ospedali. La regola per i bagni in mare era semplice e ferrea: tutti insieme in acqua e tutti insieme fuori, al suono del fischietto. Il primo giorno cinque minuti e man mano sempre di più. Se qualcuno tardava a uscire dall’acqua era punito, saltava il bagno del giorno dopo. Si andava al mare solo la mattina; il pomeriggio, dopo il sonnellino e la merenda, lo trascorrevamo bighellonando nei cortili. Si poteva scrivere a casa, le lettere dovevano essere consegnate ancora aperte alle signorine per una censura preventiva da parte del direttore. A casa non dovevano sapere che la fame ci abbandonava solo per pochi minuti. L’obesità infantile era una piaga di là da venire.
Qualcuno più intraprendente degli altri, mentre si camminava in fila per due nelle vie del paese, riusciva a consegnare furtivamente a un passante una lettera indirizzata a casa, nella speranza che costui la imbucasse dopo averla affrancata a sue spese. È probabile che i residenti fossero abituati a quelle manovre perché le missive partivano. Il clima di congiura che avvolgeva l’operazione spingeva a calcare la mano nella descrizione delle nostre condizioni, quasi fossimo stati ospiti di un gulag. Incominciarono ad arrivare da casa pacchi di viveri: formaggini, cotognata solida, frutta secca. Un tesoro da consumare di notte e da nascondere sotto il cuscino prima di andare in spiaggia. Poi qualcuno di quelli che non ricevevano pacchi si dette malato e, rimasto solo nella camerata, iniziò a frugare sotto i cuscini e a saccheggiare le riserve dei compagni più fortunati. Il gruppo dei possidenti decise di delegare a turno uno dei soci per darsi malato e fare la guardia al patrimonio. Facevo così il mio ingresso, dalla parte giusta, nella lotta di classe.
A Ferragosto arrivò in visita il presidente dell’Unione Industriale, il commendatore Ercole, titolare delle omonime fonderie. Quel giorno, stranamente, abbiamo mangiato benissimo, c’era persino una fetta di panettone. Ho brigato in modo che incaricassero me per scrivere e poi leggere al commendatore l’indirizzo di saluto e di ringraziamento. Volevo che mi notasse fra il centinaio di ragazzi e soprattutto che si ricordasse di me quando un giorno sarei andato a chiedergli la mano di sua figlia Milena, mia coetanea. La ragazza mi piaceva perché sorrideva sempre. Anche il fatto che fosse figlia unica giocava a favore della sua avvenenza. Da quel Ferragosto ogni sera, prima di addormentarmi, davo libero corso alle mie fantasie. Immaginavo il commendatore che, ritornato a casa nella sua villa, durante la cena, rievocava i fatti salienti della giornata: «A un certo punto è arrivato un ragazzo fantastico, mi ha indirizzato un saluto bellissimo, sembrava scritto da un grande giornalista. Sono sicuro che farà molta strada nella vita». E Milena: «Perché non lo invitiamo a fare merenda? Potrebbe aiutarmi a fare i compiti». La realtà è stata un filino diversa. Meglio così, dopo qualche anno l’azienda del commendatore ha dovuto chiudere e non è facile per un direttore generale trovare un altro impiego.