Il volto della Regina d’Inghilterra compare sui cartelloni del Regno Unito rimasti senza pubblicità, il verde smeraldo del vestito che indossava durante il discorso alla nazione del 5 aprile è fisso sulla retina dei britannici come la sfumatura cui affidarsi e aggrapparsi, da cui farsi rassicurare e sorreggere. Elisabetta II si rivolge di rado ai suoi sudditi oltre le occasioni tradizionali: la serie televisiva «The Crown» ricostruisce questa reticenza (con molte lacrime nascoste e sguardi indecifrabili) e le sue implicazioni nel rapporto tra la monarchia e gli inglesi. Non sapremo mai se la rappresentazione televisiva è fedele alla realtà, sappiamo di certo che le parole della Regina sono state un balsamo, una cura per il popolo britannico che oltre a dover affrontare la pandemia da coronavirus – come tutti – si ritrova con il primo ministro, Boris Johnson, in terapia intensiva e con una catena di comando incerta e preparata (diciamo così) più sulla Brexit che su tutto il resto.
Questo governo all’inizio della crisi parlava di «immunità di gregge», di contagi inarrestabili, «preparatevi a salutare molti vostri cari», aveva detto Johnson: poi il Regno Unito si è messo sulla scia della maggior parte dei paesi, ma quell’aria di sacrificio iniziale è ancora lì, la respirano tutti, è rimasta appiccicata negli appelli di medici e infermieri che dicono che manca il materiale sanitario, che denunciano una superficialità sciagurata da parte del governo. L’incertezza non riguarda soltanto il passato: ora che si contano i danni economici oltre a quelli umani e si vuol guardare avanti, alla agognata «fase due» dell’allentamento del lockdown, gli inglesi non sanno chi, come e quando qualcuno potrà prendere le decisioni – decisioni cruciali. Ogni paese si sta interrogando sui prossimi passi, c’è chi già si avvia verso la riapertura con andatura cauta, e gli inglesi che pure fremono come tutti non sanno neppure chi li guiderà in questa transizione complicata.
La Regina è arrivata a spazzare via per quanto possibile l’aria di sacrificio e incertezza, il vento che allontana le nuvole più nere: non può fermare la tempesta, la Regina, nessuno lo può fare, ma può dare gli strumenti storici, mentali, culturali per affrontarla nel migliore dei modi. Il parallelismo più immediato, considerata la retorica da guerra che permea i discorsi di molti leader politici, è quello con la Seconda guerra mondiale, che come si sa la Regina conosce molto bene. In realtà Elisabetta II ha fatto un solo riferimento esplicito al conflitto mondiale, ma ha disseminato il suo discorso di simboli e di ritornelli che suonano familiari agli inglesi e che costruiscono – ribadiscono – il carattere britannico. La Regina parla dell’oggi e agli inglesi di oggi ed è straordinario come una signora ultranovantenne che rappresenta una delle istituzioni più anacronistiche della modernità riesca a trovare le parole giuste per rassicurare e motivare l’attualissima società odierna.
Ha detto che gli applausi ai medici e agli infermieri sono «l’espressione dello spirito nazionale», ben rappresentato dagli arcobaleni che disegnano i bambini per ricordarci che andrà tutto bene; non ha parlato di battaglie e di sacrifici e di pene, ma della disciplina degli inglesi, della loro determinazione tranquilla nel rispettare le regole e prendersi cura degli altri, dell’orgoglio britannico come carattere e non come supremazia.
Per questo il discorso è piaciuto anche a chi inglese non è e a chi non ama particolarmente le monarchie: le parole di unità e orgoglio della Regina avevano un carattere universale, ci hanno messo tutti di fronte alla necessità di superare insieme – solo insieme si può – l’emergenza, facendo attenzione anche alle azioni più banali, perché il virus sta spezzando i patti sociali uno dopo l’altro: basta guardare le statistiche per capire che non è tanto l’età il problema, quanto la povertà e la zona in cui si abita (in America la tragedia è fin troppo evidente visto l’impatto del virus sulla comunità afroamericana). E guardandoci tutti negli occhi la Regina ha detto la frase più potente e più emozionante: «We will meet again», ci rincontreremo.
È una citazione della canzone che Vera Lynn cantava per i soldati in guerra, ma è attuale e universale: di tutte le promesse la più concreta, una carezza che sa d’amore e che riempie il vuoto delle città, con la sua sfumatura verde smeraldo.