Una parodia di guerra civile

/ 18.02.2019
di Aldo Cazzullo

C’è un Paese antico, ai confini occidentali dell’Europa, assolato, dinamico, che potrebbe essere felice, invece si sta dilaniando in una sorta di parodia di guerra civile. È la Spagna.

Settantaquattro anni di carcere. È la richiesta di Vox, l’arrembante partito di estrema destra, per l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras, additato come «capo di un’organizzazione criminale». La procura che ha messo sotto processo lui e gli altri leader indipendentisti di Barcellona si accontenterebbe di 25 anni per ribellione, ma il movimento di Santiago Abascal Conde, il leader con la pistola, ha ottenuto di presentarsi come parte civile nel maxiprocesso ai protagonisti del separatismo catalano. Dirigenti politici eletti dal popolo, che hanno certo sbagliato a forzare la legge, ma ora si ritrovano ostaggio di una partita molto più grande di loro, in un’altalena tra l’ergastolo e l’amnistia che sarebbe la logica conseguenza di un accordo, per ora remotissimo.

Infuria semmai lo scontro tra opposti sovranismi, quello catalano e quello spagnolista, che domenica scorsa si è dato convegno a Madrid in plaza de Colon, la piazza della destra; dove tra falangisti che cantavano «Cara al Sol» e salutavano romanamente si è trovato a proprio agio Manuel Valls, candidato sindaco di Barcellona, ex primo ministro socialista francese, venuto a manifestare contro il primo ministro socialista spagnolo, Pedro Sanchez. Del resto era stato proprio Sanchez a evocare il demone franchista, pretendendo di riesumare dal Valle de los Caìdos le spoglie del Caudillo, difese strenuamente dall’abate legatissimo alla memoria del dittatore.

In tutto questo, mercoledì scorso è di fatto caduto il governo. Un trauma che appare il semplice corollario della tempesta perfetta che incombe sul Paese. Sanchez non aveva vinto le elezioni. Era però riuscito ad aggregare i populisti di Podemos, i separatisti catalani e i nazionalisti baschi per far cadere Mariano Rajoy, e prenderne il posto. Un governo debole, nato dal rigetto della destra e dall’esigenza di aprire un dialogo con Barcellona, fallito prima di cominciare anche per il veto del «clan degli andalusi»: l’opposizione interna che fa capo al Grande Vecchio del socialismo iberico, il sivigliano Felipe Gonzalez. Se la ricca Catalogna se ne va, alla povera Andalusia che resta? Così ora a casa va mestamente Sanchez, sconfitto nettamente in Parlamento sui «Presupuestos», il bilancio dello Stato. Inevitabili a questo punto le elezioni anticipate.

Nel frattempo a destra è accaduto di tutto. Rajoy, accusato di non aver avuto pugno abbastanza duro con i catalani – nonostante le manganellate della Guardia Civil agli elettori del referendum illegale –, è tornato a lavorare al catasto nella sua Galizia. L’erede designata Soraya Saenz de Santamaria è stata clamorosamente battuta alle primarie da Pablo Casado, l’uomo di José-Maria Aznar, padrino dell’ala dura del partito popolare. Ma neppure lui è riuscito a frenare la nascita di una forza a destra del Pp, novità assoluta nella giovane democrazia spagnola. Una mutazione storica, un tabù infranto. Vox ha già fatto nascere un governo di destra in Andalusia, un tempo bastione rosso. Anche in Spagna i populisti sono entrati in partita.

La campagna elettorale si annuncia infuocata. Sànchez gioca la carta dell’Europa, facendosi fotografare accanto a Merkel e Macron: con l’Italia fuori gioco, la Spagna si candida a terza forza dopo Germania e Francia. Non è detto però che ai fini interni la mossa socialista rappresenti un vantaggio.

Le grandi capitali dell’Unione non sono mai state così deboli: Londra quasi fuori, Parigi sottosopra, Berlino incupita dal tramonto della Cancelliera; Barcellona, la più grande città non capitale del continente, freme. L’Europa è a un tornante della storia; tra cento giorni elegge il proprio Parlamento; e non sarà un voto qualunque.

In tutto questo si inserisce, per quel che riguarda specificamente la Spagna, la guerra della memoria. I socialisti sono accusati di pensare e rappresentare il Paese come un grande set di Almodovar, con suore sieropositive, preti inevitabilmente pedofili, madri che diventano padri e viceversa. E di voler imporre una menzogna storica: il mito dell’antifranchismo di massa coltivato dagli scrittori, il giacobinismo di Savater, l’anticlericalismo di Javier Marias: l’intellighentsia di sinistra è accusata di voler ribaltare la storia, rimuovendo il consenso che Franco ha comunque in parte avuto.

Dall’altra parte, si risponde che, dopo tanto silenzio, gli spagnoli non devono aver paura di sapere: la verità non è mai inopportuna. Per quarant’anni il franchismo ha martellato il popolo con la propaganda, la cui eco si avverte oggi nella pubblicistica della destra. I separatisti catalani raffigurano la loro terra come antifranchista. Ma quando intervistai Manuel Fraga Iribarne, delfino di Franco e fondatore del partito popolare, mi disse che tutte le volte che accompagnava il Caudillo a Barcellona l’accoglienza della borghesia catalana era entusiasta. La realtà è che misurare il consenso di una dittatura è sempre molto difficile. E a evocare i fantasmi del passato si sbaglia quasi sempre, anche quando farlo sarebbe giusto.