Le persone che incontro, seppure a debita distanza, durante le mie passeggiate quotidiane, spesso stanno parlando al telefono. Parlano, parlano, a voce alta, senza nemmeno alzare lo sguardo sullo splendido panorama primaverile che accoglie e accompagna i loro passi. Certo, di persone con gli occhi puntati sul telefonino se ne incontravano già prima, perse a guardare dentro lo schermo, in silenzio, in una specie di esilio dal mondo. Oggi invece attraverso il telefono esplodono tante parole, spesso anche urlate, in una danza polifonica che sembra voler sfidare, e se possibile anche sconfiggere, questa inattesa esperienza di isolamento.Ciò non stupisce. Al contrario, ci ricorda che la parola è la casa in cui abitiamo. La nostra civiltà nasce dall’oralità e dal dialogo. L’uomo è un animale simbolico: più che a contatto con le cose, vive dentro i significati che attribuisce loro.
La storia umana è racconto, è narrazione; ciascuno di noi, in un certo senso, vive dentro il proprio racconto e lo intreccia con il racconto degli altri. Con i nostri linguaggi abbiamo dato voce al mondo, abbiamo donato parole alla vita, alle sue passioni, ai suoi sentimenti. E queste parole della vita le abbiamo condivise, perché comunicare significa mettere in comune doni, abitare un luogo comune. Per questo la parola è anche luogo della trascendenza, perché fonda sempre altri mondi, moltiplica i mondi possibili e la nostra possibilità di condividerli. Proprio come succede al Piccolo Principe che, dopo aver chiesto al suo interlocutore di disegnargli una pecora, decide che la pecora più bella, la più vera, è quella invisibile, addormentata dentro una scatola chiusa.
È un’immagine intensa del magico racconto di Saint-Exupéry. Il dialogo, delicato e rarefatto suscitato dal disegno, ci offre un messaggio molto significativo: la parola vera comincia solo quando l’invisibile diventa visibile, quando riusciamo a riconoscerci in una dimora comune, abitata da parole condivise.
Ma comunicare vuol dire anche mettere in comune un impegno (munus significa dono ma anche impegno); comunicare è rispondere all’altro che mi interpella. Secondo una bella espressione di Nietzsche, parlare significa poter leggere nell’anima dell’altro, perché la lingua comune è l’espressione sonora di un’anima comune.«Parlare» scrive il filosofo «è in fondo la domanda che io pongo al mio simile per sapere se egli ha la stessa anima che ho io». La parola, insomma, può rivelare l’anima.
Oggi questa esperienza costitutiva del nostro stare al mondo e del nostro incontro con l’Altro, appare spesso tradita. Tradita e mortificata dentro una comunicazione globale che rischia di svuotare la parola di ogni suo intimo valore e di ogni sua possibile verità. Tradite e depotenziate in una comunicazione globale che diventa un «non luogo», le nostre parole sembrano danzare, perlopiù solitarie e troppo spesso inascoltate, sulla superficie di un grande spettacolo in cui siamo tutti convocati ad esibire le nostre vite.
Eppure, nell’isolamento di oggi, il bisogno di parlare torna forse a volersi mostrare come bisogno di un autentico luogo comune. E questo bisogno potrebbe così rivelarsi come un antidoto insperato al vuoto e all’insignificanza di troppe parole diventate soltanto rumore di fondo. Insomma, nella «passeggiata-chiacchierata» potrebbe nascondersi il desiderio di un ritorno alla parola autentica. Questi fragili indizi non sono però da ricercare nelle mille frasi liberate al vento camminando, ma in ciò che le parole non dicono. Sono indizi che abitano un silenzio: il silenzio che precede e che accompagna i nostri discorsi. Perché solo da questo silenzio possono nascere i significati più veri: l’uomo che parla cerca un dialogo con sé stesso per incontrare il mondo.
Sarebbe bello se proprio l’esperienza faticosa di questi giorni potesse aprirci a una nuova cultura del silenzio. E se potesse farci riconoscere ciò che sempre abbiamo saputo, ovvero che le parole autentiche nascono dal silenzio.
Oggi, in verità, anche il silenzio appare tradito nella sua essenza. Un silenzio percepito come minaccia del vuoto, o come punizione: stai zitto! Un silenzio tradito e privato dei suoi molteplici significati: attesa, ascolto, contemplazione, e soprattutto occasione per dare un senso personale alle parole che doniamo agli altri. «Se la parola che pronuncio non si radica in un silenzio di cui sono capace – scrive la filosofa Luce Irigaray – allora non è mai davvero mia». E aggiunge: «Questo silenzio di cui sono capace è anche la prima parola di accoglienza verso l’altro».