Emmanuel Macron ha avuto un ottimo risultato domenica sera, ma ha sbagliato a dare l’impressione di aver già vinto. Un candidato senza partito, senza territorio (pure gli operai della sua Amiens gli si sono rivoltati contro), senza organizzazione, ha bisogno di mobilitare il voto d’opinione, di suonare l’allarme contro il populismo alle porte. Invece ha dato l’impressione di essere rilassato, anche troppo. E la cena di festeggiamento nella brasserie di Montparnasse, in compagnia di vecchi arnesi come Jacques Attali e Daniel Cohn-Bendit, è apparsa senz’altro prematura.
La mobilitazione vista nel 2002 contro Le Pen padre non ci sarà. Mélenchon rifiuta di dare indicazioni per Macron. E la Francia appare divisa in due, tra città e campagna. Dietro il consenso per Marine Le Pen non ci sono soltanto la paura del terrorismo o il rigetto dell’immigrazione. Nella città più colpita dal terrorismo e con il maggior numero di immigrati, Parigi, Macron è al 35%, Marine Le Pen al 5. A Lione il «candidato del sistema» supera il 30, la «candidata del popolo» non arriva al 9. A Nizza, piegata dalla strage del 14 luglio, vicina alla frontiera calda di Ventimiglia, è in testa il povero Fillon. Marine non sfonda neppure nelle banlieues. Vince Macron sia nella periferia occidentale di Parigi, dove vivono i ricchi che di solito votano a destra, sia in quella orientale, dove vivono i poveri che votavano a sinistra, e talora hanno premiato semmai Mélenchon (primo a sorpresa anche a Marsiglia). Eppure nella maggioranza dei dipartimenti è in testa Marine. Che supera il 30% nel Nord delle miniere e delle fabbriche chiuse, nel Sud dell’idilliaca Valchiusa che ispirò Petrarca, e a Est, in Alsazia e Lorena, sulle rive del Reno e della Mosella, dove si è francesi d’elezione anche per odio al Kaiser che spediva le reclute nella Prussia orientale o in Slesia.
È la grande provincia francese del pastis e del riesling, dei giochi di bocce sotto i platani e della choucroute. Che non consuma brunch ma pantagruelici pranzi della domenica, non si rimette in forma con il pilates ma con il riposino, non studia il cinese ma parla dialetto. E quel che per i parigini è oleografia, per i provenzali o i piccardi è identità. Non luoghi comuni; abitudini.
Molti elettori della Le Pen protestano contro l’immigrazione di massa, con cui devono lottare per la casa popolare, il posto all’asilo nido, il letto in ospedale, a volte anche il lavoro. Ma per molti altri il problema non è certo il marocchino che porta il latte o la posta, bene o male integrato. È la vecchia fabbrica del paese chiusa, smontata e rimontata in Polonia (proprio come si vuole fare ad Amiens della Whirpool). È il grano che non vale più nulla. È il vino di media qualità mandato fuori mercato dai concorrenti argentini, australiani, sudafricani. È la sensazione di essere sorvolati dai cambiamenti, esclusi dalle novità, circumnavigati dalla corrente della storia. È la disperata volontà di difendere l’«eccezione francese», termine coniato per spiegare un’economia che tutto sommato regge nonostante l’immane peso dello Stato, ma anche il mistero di uno tra i Paesi più longevi al mondo nonostante un’alimentazione a base di burro e grasso d’oca; almeno in provincia, dove il sushi e la quinoa non hanno ancora soppiantato del tutto la brandade e il pane.
Marine Le Pen non è ovviamente la soluzione. Ma può essere la consolazione. Perché è l’unica, o quasi, a dire che la vecchia Francia non è spacciata, che l’Europa può essere distrutta, che il futuro non è ineludibile. L’altra faccia del lepenismo è Mélenchon, con la sua versione gauchiste del nazionalismo, del protezionismo, dell’euroscetticismo; non a caso è stato il solo leader a rifiutarsi di appoggiare Macron al secondo turno, rompendo il fronte repubblicano.
Domenica 7 maggio il ballottaggio imporrà una semplificazione al limite della torsione. E, a meno di clamorose sorprese, aprirà le porte dell’Eliseo alla Francia liberale, europeista, ottimista di Macron; così come cinque anni fa le aveva spalancate al partito socialista. Ma anche la vittoria dell’ex enarca ed ex banchiere, beniamino dei media e dei mercati, può essere per l’establishment più consolatoria che risolutoria. La Francia profonda resterà all’opposizione. E i numeri finali per Macron non saranno certo il 62-38 annunciato dai sondaggi effettuati nella notte del primo turno.