Vorrei dire qualcosa della filosofia cinese che accanto a Mao ora ha ripreso Confucio, l’uomo che nel V secolo a.C. insegnò ai cinesi a rispettare la legge. La Cina che compra, vende e cresce, non ha ripreso a pensare. Sta piuttosto continuando a pensare cinese, a dispetto dei nostri grossolani tentativi di confronto e definizione. Così da una parte si comincia a dubitare dell’armonia come unica chiave di lettura dei millenni di pensiero cinese, e dall’altra troviamo François Jullien che nell’affermare «Non è così facile uscire da Hegel» ha definito l’uomo occidentale ancora incompetente lettore dei classici cinesi. Hegel non esitò ad attribuire al confucianesimo «assenza di pensiero» e incapacità di elaborare un’autonomia morale. A Parigi nei recenti decenni François Cheng era accolto nei salotti come un grazioso vaso Ming, di cui si apprezzava la aimable sagesse e l’imperturbabile serenità su cui è così facile scherzare tanto è lontana da noi. Pensiamo all’assistente di Nick Carter nei fumetti di Bonvi degli anni Settanta, che siglava con «Dice il saggio...». Se all’antitesi tra saggezza e filosofia si aggiunge il vuoto culturale che nel Novecento ha impedito ai cinesi l’eterodossia dalla religione marxista con ogni genere di sradicamento e violenza, si comprendono meglio le difficoltà delle due parti: dei cinesi a maneggiare la loro filosofia, dei non cinesi a riconoscerla.
Il Trattato sui riti di Xunzi, è un buon passo verso l’eliminazione del pregiudizio del paradigma dell’armonia: questo testo confuciano del III secolo a.C. si apre con la tematizzazione della guerra di tutti contro tutti, una contesa che può essere dominata solo dalle antiche norme rituali, dal forte valore coercitivo. Sarà un suo allievo, Han Feizi, a inaugurare il dominio della spietata e violenta forza della legge, chiamata a sanare la violenza di natura. Questo per l’armonia. Quanto alla saggezza incapace di etica e di filosofia, si trovano risposte interessanti nel libro La via della bellezza. Per una storia della cultura estetica cinese di Li Zehou, filosofo vivente tra i più noti. È un testo simbolico, un segno della ripresa di una sensibilità confuciana all’interno del materialismo storico. Parlare di un’estetica indistinguibile dall’etica in vista del buon ordine e del buon governo è tornare a parlare cinese, se pur da parte di chi, come Li Zehou, è vissuto in Cina fino a pochi anni fa e usa concetti kantiani per spiegarsi meglio. Quella che abbiamo a disposizione è l’unica sua opera tradotta in lingua occidentale (1981), sebbene le sue pagine più speculative siano molte dato che da poco a Taiwan si è pubblicata una raccolta di dieci volumi.
Li Zehou ha insegnato filosofia in Cina e durante il periodo della Banda dei Quattro fu inviato in un campo di rieducazione. Dopo i fatti di piazza Tian’anmen fu sottoposto a gravi accuse, e nel 1992 si trasferì negli Stati Uniti. Sintetizza il suo pensiero, in cui convivono confucianesimo e modernizzazione, come una «filosofia del mangiare», che si preoccupa prima del cibo e poi delle questioni etiche. Secondo una lettura non ortodossa del marxismo, il benessere economico e lo sviluppo tecnologico porterebbero al progresso sociale. La vita materiale è il fondamento della civiltà umana e lo sono soprattutto gli strumenti produttivi: per illustrare il passaggio da questi alla formazione della coscienza sociale, dei principi etici, della sensibilità estetica, Li Zehou ricorre a Kant e ad altri filosofi occidentali, in unione o in disaccordo con Confucio, Mencio, Xunzi, Mao Zedong.
Il libro di Li Zehou racconta la storia di tutti i cinesi che hanno adattato il loro senso della bellezza ai loro progressi tecnologici. Sembra di leggere una fiaba, sorta nel cuore del marxismo determinista: il passaggio dalle immagini realistiche all’astrazione, e poi alla ricerca della bellezza nelle arti, tutto sembra, di nuovo, così armonico. La dipendenza tra progresso economico e gusto estetico, ammette Li Zehou, non è così semplice: letteratura e pittura possono prosperare in momenti difficili, mentre architettura e scienze hanno bisogno di stabilità e prosperità economica. Ma si ritrova una certezza di fondo: senza influssi divini, né umani volontarismi, l’estetica è il segno di una natura umana che procede inarrestabile, sorgendo dagli individui che sovrasta e divora, che di armonico hanno solo il finale dove vince sempre chi doveva vincere. Che confusione: strumenti filosofici per spiegare le indicazioni di Confucio e Mao, che si sono sempre limitati a dire ai cinesi che cosa dovevano fare. Non credo sia utile continuare a cercare una filosofia cinese, africana, peruviana. Non ci devono assomigliare tutti, ognuno ha il suo modo di pensare e vivere.