Sì, in Ticino «lo sconcerto e lo smarrimento», come ha scritto la direttrice del «Giornale del Popolo» Alessandra Zumthor sull’ultima edizione quasi interamente bianca del 18 maggio 2018, è stato davvero generale. L’improvvisa morte di questo storico e glorioso quotidiano è stata una sorpresa, molto meno il fatto che questo potesse succedere. La fine della Publicitas – anch’essa ormai solo una questione di tempo per chi osserva il panorama mediatico e pubblicitario elvetico – ha accelerato la crisi e dato il colpo di grazia al GdP.
Col senno di poi è facile dirlo, ma la decisione di rompere l’accordo con il Corriere del Ticino, che dal 2004 al 2017 ha permesso al Giornale della curia di stare a galla, si è rivelata nefasta, come tutti o quasi gli addetti ai lavori temevano. Persino l’ex direttore del GdP Filippo Lombardi, intervistato da Ticinonline il 17 maggio, ha espresso il suo scetticismo sul fatto di lasciare il Corriere e di affidarsi a Publicitas, poiché tutti nell’ambiente sapevano che l’agenzia pubblicitaria navigava da anni in cattive acque. In un momento storico in cui la stampa scritta vive una crisi epocale, a causa del drastico calo della pubblicità e del numero di lettori, alla quale i grandi gruppi editoriali rispondono puntando sulla concentrazione dei mezzi, su sinergie e alleanze per mantenere una grandezza di scala, il «Giornale del Popolo» ha optato all’inizio di quest’anno per la via solitaria. Molto coraggioso, ma azzardato.
Filippo Lombardi conosce i retroscena ben meglio di chi scrive, nell’intervista a Tio ha parlato di rigidità reciproche fra CdT e GdP che non hanno facilitato i negoziati. Tuttavia è più che comprensibile – perlomeno per noi giornalisti – che la direzione del giornale presente e passata (Claudio Mésoniat ha continuato ad avere un influsso sulla vita del giornale anche dopo il suo pensionamento) volesse salvaguardare l’identità del GdP, piuttosto che dovere operare nuovi risparmi e tagli al personale e condividere ancora più servizi giornalistici con i colleghi del CdT. In effetti, se due giornali si assomigliano sempre di più, come fare a distinguerne l’anima? Una risposta che da un po’ di tempo a questa parte stanno cercando anche molti giornalisti di grandi testate svizzero tedesche riunite sotto il cappello di Tamedia, i cui articoli finiscono su più testate. La realtà con cui si cozza, però, non lascia scampo: o hai i soldi (abbonati, pubblicità) per stare in piedi, o chiudi.
Ma non lasciamoci ingannare: non sono stati quei 400 mila franchi dovuti dalla Publicitas al GdP a condannarlo a sparire. Quelli sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Anche il presidente del Consiglio di Stato Claudio Zali, dopo un incontro con il vescovo Valerio Lazzeri ha dovuto riconoscere che «non sono quei 400mila franchi l’ostacolo maggiore per proseguire. Il vero problema è l’entità oggettiva della situazione che ha portato a depositare i bilanci» (Tio, 18 maggio). Sarà importante, per capire la realtà dei fatti, avere delle spiegazioni più dettagliate sulle cifre che hanno portato alla decisione di chiudere il giornale, quando le circostanze lo permetteranno e quando gli animi si saranno un poco calmati. L’impressione suscitata dalla direzione del giornale è che la chiusura fosse calata come un fulmine a ciel sereno, solo per i 400 mila franchi dovuti da Publicitas. Monsignor Valerio Lazzeri, forse poco abituato alle paludi della comunicazione, si è preso tutte le colpe (di aver annunciato la chiusura da un giorno all’altro, di non aver previsto un piano sociale) ma, pur non conoscendo di persona il vescovo, se non in un fugace incontro, ho dei dubbi (corroborati da una persona che ha parlato con don Lazzeri) che non avesse fatto presente alla direzione già in precedenza che si rischiava la chiusura a breve.
Concludo con una speranza: che l’ondata di solidarietà aiuti a gettare le basi per un nuovo esperimento editoriale e che i 30 dipendenti non vengano abbandonati.