Si parla tanto di donne vittime e ribelli, di donne nei luoghi di potere, di donne colte e scienziate. Si rispolverano canzoni, si leggono poesie, soprattutto di Alda Merini, la poetessa milanese incompresa, che trascorse anni in manicomio e visse povera, pur attingendo a vette poetiche che ci si domanda come abbiano potuto rimanere nascoste ai più per decenni, prima della sua morte, il primo novembre del 2009. Certo, morire il giorno dei Santi che precede quello dei morti. Ed essere nata il primo giorno di primavera, il 21 marzo del 1931. Lo si legge anche nelle sue poesie: «Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta».
Alda nasce in via Papiniano, dove oggi due volte la settimana un mercato riunisce cinesi e maghrebini per vendere lenzuola e golfini di cashmere, a nemmeno un chilometro dai Navigli. Il padre è dipendente delle assicurazioni «La Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza il Duomo», nome oggi bizzarro che dice della piccolezza dell’ente e della sua rapida fine. Tutto sa di fatica di vivere, ma Alda ha già un rifugio, la poesia che attraverso un professore delle scuole medie arriva al critico letterario Giacinto Spagnoletti. Apprezzata da grandi letterati, a sedici anni si presenta quel disturbo bipolare che la porterà a un primo breve soggiorno a Villa Turro, e poi a successivi ricoveri in manicomio. In quel luogo che somigliava più a un campo di concentramento che a un ospedale, la Merini arriva non sempre per profonde ragioni mediche, come quando a spedircela è il marito, padre delle quattro figlie, dopo un litigio dovuto agli eccessi alcolici di lui.
Non le è mai mancato però l’appoggio dei grandi intellettuali dell’epoca, soprattutto se socialmente borderline, per esempio Davide Maria Turoldo o Giorgio Manganelli, con il quale aveva avuto giovanissima una fugace e tempestosa relazione. Nonostante le traversie psichiatriche, dal 1950 le poesie di Alda vengono pubblicate con l’unica interruzione di pochi anni durante i quali la cura delle figlie assorbe ogni energia. La città di Milano non le toglie mai l’affetto e l’appoggio di artisti e intellettuali, ma soprattutto la lascia libera di vivere nello stile che meglio le si addice. Ossia lasciando liberi entrambi i volti della poetessa: la vecchina amica degli animi nobili, rifugiata in due stanzette sui Navigli, e la signora anziana arrabbiata col mondo, asociale, burbera, nomade. Non c’era bisogno di manicomi, bastava lasciarla essere quello che preferiva, magari controllando che non si facesse del male, come prevedeva nella seconda parte della poesia che abbiamo letto sopra: «Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera».
Dico queste cose, perché alla mente, pensando ad Alda Merini in questi giorni, è tornato un episodio dell’inizio degli anni Duemila. Ero a bere qualcosa con un amico, tempi andati del poter perdere tempo, probabilmente proprio in zona Navigli, tardo pomeriggio. Annunciata da un terribile odore, si avvicina un’anziana infagottata in abiti malconci e sovrapposti. Non vuole soldi, lo dice subito. Si siede al nostro tavolo e desidera leggere il mio futuro. Non la si può mandare via, ha uno sguardo pungente, sul volto trascurato, i capelli in disordine, i baffetti sporgenti come capita a quell’età (ma anche ad altre, se non si sta attente). Prevede cose strampalate, parla di massimi sistemi, non accetta nemmeno un caffè. Colpita dalla somiglianza, in quel farraginare di parole, le chiedo all’improvviso se conosce quella poetessa a cui somiglia così tanto. La vecchina si interrompe, comincia a inveire: quella schifosa! Non voglio sentirne parlare, tutti dicono che le somiglio ma non desidero essere accomunata a lei, questo in sintesi, e depurato, il discorso. Ci veniva quindi a dire che la nota poetessa Alda Merini le rubava la scena, le rovinava la vita. Io tendo a credere sempre, per ingenuità o per comodità, a quello che mi dice una persona di cui non ho motivi per non fidarmi. Quindi penso ohibò che combinazione, questa povera barbona somiglia alla Merini ed è stufa di avere attenzioni solo a causa di questa somiglianza. Forse nessuno le ha mai chiesto da dove viene, che vita ha avuto. Piena di zelo incomincio a farle qualche domanda, ma niente da fare. Ormai la signora si è offesa, raccoglie le sue sporte (esiste un barbone senza sporte piene di oggetti misteriosi?), se ne va.
Non mi era più tornato in mente questo episodio, nemmeno quando Alda Merini è morta, avevo obbedito alla sua maledizione. Ma in questi giorni, risentendo le sue poesie per ricordare una donna uccisa o resa invalida dal suo uomo, ho sentito insieme alla nota dolente della vittima anche il sorriso, anzi forse il riso, di chi si presenta come «nata il ventuno a primavera»: «folle», e forse anche per questo capace di non perdere mai di vista la felicità del risveglio della natura.