Una Commissione europeista

/ 16.09.2019
di Paola Peduzzi

Ursula von der Leyen ha presentato la sua Commissione, ben più europeista di quel che si poteva immaginare soltanto poche settimane fa: lo slancio distruttore dei movimenti sovranisti si è ridotto e le candidature presentate dai 27 paesi europei (il Regno Unito dovrà indicare il suo commissario soltanto se rinvia l’uscita dall’Ue, a oggi prevista per il 31 ottobre) sono considerate «eurocompatibili» dalla maggior parte dei commentatori. La von der Leyen ha scelto tre vicepresidenti esecutivi che si occuperanno di economia, di concorrenza e innovazione e dell’ambiente: tra questi, la più rafforzata è Margrethe Vestager, la danese che già si occupava di anti trust nella commissione Juncker e che oggi, come ha scritto il «New York Times», «ha più poteri che mai» – l’Amministrazione Trump non sarà contenta.

Un portafoglio extralarge – industria e mercato interno – è stato riservato anche alla francese Sylvie Goulard, e proprio questa scelta è stata interpretata come un ringraziamento al patrocinio di Emmanuel Macron a questa commissione: il presidente francese ha fatto il nome della von der Leyen e ha creato consenso attorno a lei; il suo piano B era la Vestager; la Goulard è una macroniana di ferro. Meglio di così, insomma, per Parigi non poteva andare.Con lo slogan «una nuova spinta alla democrazia europea», la presidente tedesca ha nominato altri cinque vicepresidenti (non esecutivi) lasciandosi andare a eccessiva creatività linguistica nella definizione dei diversi portafogli: in particolare ha fatto molto discutere la denominazione dell’incarico del greco Margaritis Schinas che sarà quello di «proteggere lo stile di vita europeo». Si tratta del commissario per l’Immigrazione, e per quanto si cerchi di interpretare senza troppi pregiudizi il riferimento alla protezione e allo stile di vita europeo, non ci si riesce: non suona né bene né accogliente, per di più ora che l’immigrazione è uno dei temi più rilevanti per questa nuova Commissione, dopo che quella precedente non è riuscita a creare una politica migratoria coerente e duratura.

Un altro sopracciglio s’è alzato quando è stato fatto il nome dell’ungherese Laszlo Trocsanyi come commissario per l’Allargamento, per una serie di motivi che ancora una volta ha a che fare con i dibattiti e gli scontri che scandiscono da tempo la quotidianità europea: Trocsanyi è stato ministro della Giustizia nel governo di Viktor Orbán e quindi ha supervisionato gran parte di quelle norme che hanno portato il Parlamento europeo a votare a favore di una procedura disciplinare nei confronti dell’Ungheria; Trocsanyi è stato indicato come un esponente del Partito popolare europeo, anche se Fidesz, il partito di governo a Budapest, è formalmente sospeso dalla famiglia conservatrice dell’Ue; infine l’allargamento dell’Ue che già era scivolato in basso nelle priorità di Bruxelles non pare destinato a tornare cruciale, considerando l’approccio storico dell’Ungheria alla questione (e l’ostilità nei confronti dell’Ungheria).

Sulle questioni economiche, infine, il commissario designato è l’italiano Paolo Gentiloni, invitato a «collaborare» con il vicepresidente esecutivo Valdis Dombrovskis e con il commissario al Budget, l’austriaco Johannes Hahn, entrambi considerati molto rigidi sui conti e sospettosi nei confronti delle richieste di flessibilità che vengono dal sud dell’Europa: il dibattito sull’austerità, che era stato appannato dagli scontri sull’immigrazione, sulla tenuta dell’Europa e finanche dell’euro, tornerà di grande attualità.

I commissari devono ora essere ascoltati e confermati dal Parlamento europeo: le audizioni inizieranno a fine settembre e c’è già chi scommette su chi sarà il bersaglio prescelto dall’aula di Strasburgo (ce n’è sempre uno) per mostrarsi forte davanti alla von der Leyen, che già ha dovuto digerire a luglio una conferma risicata. I gruppi all’Europarlamento si stanno già organizzando, alcuni intonano anche canti di guerra perché i compromessi da raggiungere non saranno pochi, visto che la maggioranza è garantita dai popolari, dai socialdemocratici e dai liberali (ora Renew Europe), tutti con qualcosa da rimproverare alla von der Leyen: i primi pensano di non aver abbastanza rappresentanza; i secondi sono delusi dal fatto che il loro asso, Frans Timmermans, è uno dei vicepresidenti parificato agli altri; i terzi temono che sullo stato di diritto non si parta col piede giusto. Lo spettacolo potrebbe non essere del tutto edificante, ma un equilibrio infine si troverà: vedremo in che punto.