A volte la politica riesce ancora a emozionare. Era la sesta volta che seguivo le elezioni spagnole. Nel 2004 vidi vincere i socialisti. Si capì che sarebbe accaduto quando si videro la Catalogna e i Paesi baschi andare ai seggi in massa per punire il governo di destra del partito popolare, che aveva tentato fino all’ultimo di nascondere la matrice islamica della strage della stazione di Atocha (192 morti). Stavolta, in un contesto molto diverso, è accaduto qualcosa di simile: quando ho visto in tv le code di elettori catalani e baschi fuori dai seggi, mi sono reso conto che un pezzo di Spagna si mobilitava contro l’estrema destra.
Alla fine la maggioranza degli spagnoli ha avuto più paura di Vox che dei separatisti catalani.
Il risultato rispetta i sondaggi, che davano i socialisti nettamente primo partito, con il crollo dei popolari, il calo di Podemos, la tenuta dei centristi di Ciudadanos, e la novità di estrema destra, appunto Vox. Eppure la sensazione alla fine è stata di sorpresa.
Potremmo chiamarla l’eccezione iberica. In un momento in cui il mondo va a destra, vince la sinistra. In una fase dominata dai sovranismi, si afferma un leader, Pedro Sánchez, che dice: «Abbiamo un messaggio per il mondo: sconfiggere la Reazione è possibile. Ora faremo un governo pro-Europa».
Due anni e mezzo fa, il partito socialista operaio spagnolo era morto. Sotto il 20% nei sondaggi, quarto partito dopo Ciudadanos, Pp, Podemos. C’erano le premesse perché al Psoe accadesse quel che è accaduto al Labour israeliano, fondatore dello Stato e sceso a percentuali irrilevanti; proprio come il partito socialista francese. Nella migliore delle ipotesi, il Psoe poteva ritagliarsi un ruolo residuale, magari tattico, ma incapace di restituirgli centralità; un po’ quel che succede all’Spd in Germania, e al partito democratico in Italia.
Se oggi il Psoe è l’unica forza riformista alla guida del governo in uno dei grandi Paesi dell’eurozona, lo si deve sia alla profondità delle sue radici nella storia di Spagna, sia alla formazione del suo capo.
Sánchez non è cresciuto in un ambiente di intellettuali. Ma viene da una famiglia che credeva nella cultura. Suo nonno era analfabeta. Caduto il franchismo, si iscrisse alla scuola serale, in uno dei quartieri popolari di Madrid, Carabanchel. La pagina più bella della sua autobiografia, intitolata non a caso «Manuale di sopravvivenza», è quella in cui racconta del nonno che imparava a leggere e a scrivere.
Il piccolo Pedro invece imparò ad andare in bicicletta nel cortile della facoltà di economia dell’università Complutense di Madrid, dove il padre, studente lavoratore, seguiva le lezioni tenendolo d’occhio dalla finestra. Papà aveva solo 21 anni quando lui nacque; la mamma 19. Impiegata negli uffici della previdenza sociale, si iscrisse all’università a quarant’anni; e l’attuale premier la ricorda con tenerezza preparare gli esami alle tre del mattino, per poi scrivere una lettera all’altro figlio – che studiava composizione e direzione d’orchestra a Mosca – e dormire qualche ora prima di alzarsi per andare al lavoro.
Ovviamente, Sánchez è un politico scafato, anche cinico se necessario. È stato abile a sfruttare l’allarme antifranchista e antireazionario, agitando lo spauracchio dell’estrema destra, che non era così forte come si temeva (o si sperava). Anche per questo si sono mobilitate le regioni più segnate dalle fratture della guerra civile, e da quelle recenti del conflitto tra separatisti e centralisti, tra Barcellona – e Bilbao – e Madrid. Ma Sánchez ha capito una cosa essenziale: anche coloro che rifiutano il populismo arrembante, sentono l’esigenza di volti nuovi. Non ne possono più dei baroni corrottissimi e anche dei grandi vecchi come Felipe González.
Così, quando la burocrazia del partito decise di astenersi in Parlamento per lasciar nascere il governo di destra, Sánchez si dimise da segretario, rinunciò pure al seggio, e riprese a far politica da militante, girando in macchina le sezioni socialiste della Spagna profonda, e intercettando quella rivolta antisistema che è il vero segno del nostro tempo. Slogan: «No es no»; no vuol dire no. Lo stesso che i suoi sostenitori ritmavano domenica notte sotto il balcone. Nel frattempo Sánchez ha vinto le primarie contro la pupilla di González, l’ex presidente andalusa Susana Dìaz, ha rimontato nei sondaggi, e ha colto una vittoria che non è certo di sfondamento ma è pur sempre in controtendenza.
Le forze di sinistra hanno gli stessi voti di quelle di destra: circa 7 milioni e 200 mila. Ma la legge elettorale premia i partiti più grandi, rappresentati in tutto il territorio nazionale; il Pp invece si è diviso, e nel Paese basco come in Catalogna non esiste quasi più.
Qui c’è l’altra causa dell’eccezione spagnola (confermata dal governo portoghese, che tiene insieme riformisti e movimentisti). Basta andare in un comizio del Psoe, magari in un palazzetto un po’ fatiscente, guardare la gente, notare i loro vestiti, ascoltare i loro accenti, e paragonarla a quella vista mille volte in piazza Navona e in altre magnifiche piazze romane, alle manifestazioni della sinistra italiana. Là il popolo; in Italia professori, dipendenti pubblici, intellettuali, gente di cinema. Anche questo spiega l’eccezione che Madrid oggi rappresenta in Europa.