Il lupo è uscito dalle fiabe, dai proverbi e dalle formule propiziatorie per rovinare il sonno degli allevatori di ovini e caprini. Sulla sua presenza e i suoi comportamenti l’opinione pubblica si è subito divisa. C’è chi lo venera e chi lo maledice. Resta il fatto che oggi il predatore è protetto, anzi super-tutelato da una panoplia di leggi e norme. La sua vita vale 25 pecore, e poi non è detto che così tante vittime portino alla sua soppressione. In sua difesa il legislatore ha dispiegato uno zelo superiore alla media, come se dovesse farsi perdonare le decimazioni dei decenni precedenti.
Simili scrupoli sono recenti. Nel Ticino pre-industriale il bestiame rappresentava una fonte vitale per quasi tutte le famiglie residenti nell’area alpina. Mandrie e armenti pascolavano alle diverse quote in tutta libertà. Ogni tanto qualche bestia precipitava in un burrone o si spezzava una zampa. Il destino era il macello. Pensare che al rischio connesso alla morfologia del territorio (dirupi, cenge, pendii scivolosi) si aggiungesse anche la minaccia di un lupo o di un orso era davvero troppo. In quelle circostanze, condizionate da un acuto stato di necessità, un eventuale aggressore non avrebbe rivisto le luci dell’alba.
Oggi il cantone ha un volto diverso. Il settore primario occupa uno spazio residuale nella scala delle attività economiche. Di conseguenza anche la sua forza politica, traducibile in voti, si è affievolita. Il lupo può dunque girovagare tranquillo. A placare le ire dei pecorai ci penserà lo Stato con adeguati indennizzi e quindi, in ultima analisi, il cittadino-contribuente.
In queste ultime settimane, i nostri quotidiani hanno pubblicato parecchi interventi sulle ultime scorrerie lupesche nella fascia alpina. Molti hanno accusato gli allevatori di non proteggere a sufficienza le greggi con alti recinti e con grossi cani maremmani. Ormai siamo al paradosso: il lupo in libertà, la pecora in cattività; per l’uno si prova ammirazione, per l’altra compassione (ma è quella che si deve ad un agnello predestinato al sacrificio). Il che fa sorgere più di un interrogativo sul rapporto che noi oggi intratteniamo con le diverse categorie di animali presenti nell’immaginario individuale e collettivo.
Il declino della civiltà contadina e l’ascesa, per converso, della società dei servizi hanno generato una distorsione nel rapporto con il mondo animale. Certe specie sono come sparite dall’orizzonte visivo, soprattutto da quello dei bambini. Per vederle, osservare i loro movimenti, accarezzarle bisogna cercarle negli interstizi rimasti verdi, tra autostrade, depositi e linee ferroviarie. Si è anche imposto un processo di antropomorfismo, ossia la tendenza a rappresentarsi l’animale sotto fogge umane. Il temibile lupo è diventato un lupacchiotto giocherellone, il feroce orso un amorevole orsacchiotto.
Il cambiamento ha investito anche lo spazio pubblico e le relative gerarchie di valore. Parteggiare per il lupo piuttosto che per la pecora svela la scala delle preferenze forse più di tante indagini sociologiche. Il primo infatti è associato ad una gamma di caratteristiche positive: spirito libertario, audacia, fierezza, intelligenza; il secondo a tare e mancanze, come atteggiamenti gregari, sottomissione, ottusità, rassegnazione.
Negli stemmi delle case regnanti e nei vessilli dei corpi speciali degli eserciti raramente si troverà effigiato un erbivoro; numerosi saranno invece i carnivori come i leoni e le pantere, gli uccelli rapaci come le aquile (famosa quella bicipite della casa d’Asburgo), i pesci voraci come gli squali. Lo sguardo ebete dell’ovino intruppato non potrà mai reggere il confronto con l’occhio penetrante del predatore.
Eppure la mansueta pecora ha nutrito – e tuttora nutre – intere generazioni. Procura reddito, è utile e inoffensivo. Ma forse sta proprio qui il suo punto debole; è questa sua indole bonaria a renderlo vulnerabile. Autocrati e predatori infatti non perdonano i deboli e gli inermi. Perché, come dice il proverbio, «chi pecora si fa, il lupo se lo mangia». In un’era in cui si celebrano nuovamente le virtù dell’uomo forte – dalla Russia agli Stati Uniti passando per l’Ungheria e la Turchia – gli animi miti e concilianti non potranno che aspettarsi il peggio.