Ogni volta che il lavoro mi porta in Francia mi chiedo come si possa spiegare il «grand malaise» che da anni percorre la terra con più turisti al mondo – 83 milioni, 27 milioni più dell’Italia – e con più neonati in Europa: l’anno scorso sono nati 785 mila bambini, 311 mila più che in Italia. La seconda economia del Continente, la terza potenza nucleare del pianeta. Raccontata dalle statistiche, la Francia può apparire un malato immaginario, degno di una commedia di Molière. La globalizzazione è un’opportunità per un Paese che esporta cose belle e buone, e che continua ad attirare capitali dall’estero, anche perché l’alternanza al potere non pregiudica la stabilità politica. La netta vittoria di Macron si spiega anche così: una Francia di buon senso, spinta da una massiccia mobilitazione dei media e dell’establishment, è ormai persuasa che per una nazione vecchia e gloriosa l’unico modo per sopravvivere oggi è indurre cinesi e indiani, sceicchi e oligarchi a investire qui. Il che può essere un vantaggio; ma implica un costo, in termini di potere decisionale e di orgoglio nazionale.
In tre anni le imprese straniere hanno investito in Francia 178 miliardi di euro. Non a caso, il Club Med è cinese, Alcatel (telefonini) finlandese, Lafarge (edilizia) svizzera; il primo azionista di AccorHotels è cinese, il secondo è il Qatar; Alstom è controllata dagli americani della General Electric. Il 36% del capitale delle prime quaranta società quotate alla Borsa di Parigi è all’estero: un terzo della Francia è straniero. Nel 2007 i gruppi francesi controllavano il 5% della capitalizzazione complessiva delle Borse. Oggi, dopo la grande crisi, la percentuale è scesa al 2,8%: la Francia pesa nel mondo poco più della metà.
Ma la questione non è solo economica. L’Esagono, nonostante il verdetto di domenica, resta di cattivo umore perché sente di non contare più nulla, e quasi di non essere più nulla. Vede la propria identità secolare diluita in un mondo dove mantenere 5 milioni e 650 mila funzionari pubblici è diventato un lusso insostenibile, l’Armée saltabecca da una crisi africana all’altra mentre l’Isis che ha assassinato 238 compatrioti mantiene la sua roccaforte di Raqqa, la francofonia arretra dal Marocco all’Indocina, «la cultura è in mano agli anglosassoni» come denuncia Houellebecq, «il cinema ha dieci sole star e parlano tutte inglese» come lamenta Depardieu. Si è cantato in inglese e in arabo anche sul palco della festa di Macron, mentre Sarkozy aveva intonato la Marsigliese con Mireille Mathieu, e Hollande aveva fatto suonare a un violinista La vie en rose ballando con la povera Valérie. Eppure la celebrazione della vittoria al Louvre ha offerto un colpo di scena.
Emmanuel Macron che percorre da solo la Cour Carrée, illuminato da un fascio di luce, accompagnato dall’inno europeo, è un’immagine che resterà; se non altro perché inedita. Il Louvre ha visto ben altro. Però i francesi, che con entusiasmo o con scetticismo hanno scommesso su un giovane, sull’Europa, sul futuro, per una notte hanno avuto l’impressione che la storia fosse tornata a passare sui tetti d’ardesia di Parigi. Sempre che negli anni Macron sappia costruire di sé un ricordo migliore di quello degli ultimi due presidenti.
Per il momento, la sua vittoria è un sospiro di sollievo più che un inno alla gioia. Continuare come se nulla fosse, pensare che la nottata sia finita, dare per sconfitto il populismo sarebbe un grande errore; come si vedrà tra un mese alle elezioni legislative, quando Marine Le Pen potrebbe portare un centinaio di deputati all’Assemblea nazionale (oggi ne ha due), cui se ne aggiungeranno molti altri di estrema sinistra. Se il presidente imporrà la svolta liberale promessa, lo attende una fortissima opposizione sociale, anche violenta.