Ho conosciuto, nel 2011, mentre lavoravo a un libro sul mio paese, Giallo d’Avola, un grande avvocato penalista di Siracusa, Ettore Randazzo. Aveva saputo che lavoravo su una vicenda giudiziaria penosa che cominciò nel 1954 e si chiuse nel 1961, per riaprirsi clamorosamente dopo la scoperta di un macroscopico errore: la condanna all’ergastolo di Salvatore Gallo per l’omicidio del fratello Paolo, che dopo sette anni fu trovato vivo (e non troppo vegeto) in una cittadina del Ragusano, dove si era stabilito da diversi mesi. Mentre il fratello era finito in tribunale e poi in carcere a Ventotene, Paolo aveva vagabondato in incognito per le campagne e i paesi delle provincie orientali dandosi per morto. Randazzo volle conoscermi per offrirmi il suo aiuto, con discrezione, collaborando a cercare le carte, per darmi qualche ragguaglio tecnico sulla dinamica dei processi anni 50, per raccontarmi quel che ricordava di quei fatti lontani, per descrivermi il carattere e le abitudini degli avvocati siracusani che difesero l’imputato e con i quali aveva avuto familiarità come giovane praticante: Pier Luigi Romano e Piero Fillioley. Mi accompagnò conversando in lunghe passeggiate per le strade di Ortigia e mi fece conoscere qualche ottima trattoria nei vicoli più riposti della città barocca. Più parlavo con lui e più sentivo quanto gli premesse che nel ricostruire quella storia intricata si arrivasse almeno vicini alla verità, pur riconoscendo che alcune zone del rapporto tra i due fratelli erano destinate a rimanere oscure e che nell’attraversare quell’oscurità la letteratura sarebbe stata lo strumento migliore.
Sapevo che Randazzo era stato presidente delle camere penali italiane ma non conoscevo la sua cultura e la sua generosità. Aveva allora 61 anni, era un uomo alto, elegante con i suoi capelli bianchissimi ben pettinati, era un difensore formidabile che gestiva un prestigioso studio a Siracusa, amava il teatro classico ma leggeva anche la letteratura contemporanea, parlava con pacatezza e ironia, scriveva saggi di deontologia forense, su cui si dilettava anche a imbastire romanzi gialli. L’incontro con Randazzo fu una fortuna insperata: rilesse le bozze del mio libro da storico della giustizia italiana e riuscì a scovare alcune imprecisioni che mi precipitai a correggere in extremis. Niente di meglio, per uno scrittore, che poter contare sulle verifiche severe di un amico. Il libro uscì e nel luglio 2013 Ettore lo presentò nel giardino comunale di Avola facendone una lettura da critico letterario e soffermandosi sulle strutture e sullo stile del romanzo. In un viaggio in autostrada verso Catania mi confidò della malattia con cui combatteva senza paura e senza alcuna intenzione di cedere, e in questo febbraio 2018 vorrei ricordarlo a un anno dalla morte per cogliere un tratto piuttosto insolito della sua indiscutibile, malinconica sicilianità.
Alberto Moravia scrisse, nel commemorare l’autore de Il giorno della civetta e de La scomparsa di Majorana, che Leonardo Sciascia era un illuminista paradossale, perché il suo illuminismo pessimista procedeva in senso opposto rispetto agli illuministi storici che si muovevano dall’oscurità alla razionalità. Infatti quanto più Sciascia andava a fondo nelle sue implacabili e lucidissime analisi, tanto più la realtà gli appariva oscura, ambigua, inafferrabile. Certamente Sciascia avrebbe apprezzato lo stile classico dei libri di Randazzo: L’avvocato e la verità (Sellerio 2003) e soprattutto La giustizia nonostante (Sellerio 2006). Sono saggi-racconti consigliabili agli ignari di cose giudiziarie che vogliano capire qualcosa di un apparato quasi per definizione kafkiano (5½). Affrontando i misteri della difesa (in chiave non solo italiana ma direi universale) e mettendosi nei panni del «presunto innocente», Randazzo opera con un’attitudine letteraria: quella che si chiama empatia. Nell’abbandonare provvisoriamente le sue impeccabili nozioni tecniche, si sforza di guardare al sistema giudiziario con l’occhio ingenuo del suo cliente, attraversandone le oscurità, le distorsioni, le «ingiustizie» (con e senza virgolette) proprio come farebbe uno scrittore. Ma diversamente dal pessimista Sciascia, da quell’oscurità disorientante Randazzo ci aiuta a uscire, accompagnandoci quasi per mano. Così che da illuminista paradossale torna a essere illuminista fiducioso. Ecco, è rarissimo imbattersi in un siciliano che sia un illuminista fiducioso, cioè che non abbia, come Sciascia, una sottile o profonda, autoironica o tragica diffidenza verso l’umanità e anche verso se stessi. «Estendere un dubbio è già un fare», scrisse Sciascia. Si direbbe che per il siciliano atipico Randazzo estendere un dubbio è già un fare, ma uscirne è un fare meglio.