L’allarme fu dato dagli uomini dei servizi segreti: «Presto, sta arrivando la regina!». La giovane modella con cui il re si stava intrattenendo venne presa per le braccia e le gambe e scaraventata in mare, dove fu prontamente soccorsa dai suddetti servizi; mentre Sofia veniva accolta dal marito sorridente, che aveva casualmente dello champagne in freddo, come nella canzone di Mogol&Battisti. L’ordine – da quando molti anni prima, per fargli una sorpresa, Sofia l’aveva raggiunto in un castello dove Juan Carlos avrebbe dovuto riposare dopo la caccia, trovandolo deserto – era salvare, se non il matrimonio, le apparenze. Nessuna delle 1500 donne che i biografi gli hanno attribuito avrebbe dovuto incrociare la regina: meno che mai Marta Gayà, la decoratrice catalana, e Barbara Rey, la soubrette, unite al re da storie ultradecennali.
Un’altra amante elevata quasi al rango di seconda moglie è stata Corinna zu Sayn-Wittgenstein, nobildonna più giovane di 27 anni. Quando Juan Carlos (tra l’altro presidente onorario del Wwf spagnolo) si fratturò l’anca durante una caccia all’elefante in Botswana, i giornali infransero lo storico patto del silenzio. «Il re era con l’austriaca, stavolta bisognerebbe scriverlo» dissero i cronisti ai direttori. La notizia uscì. Erano i mesi più duri della crisi spagnola, migliaia di famiglie avevano perso la casa, i portici di Plaza Mayor a Madrid si erano riempiti di senzatetto. Juan Carlos capì e pronunciò il discorso del re più breve di tutti i tempi: «Lo siento mucho. Me he equivocado. No volverá a ocurrir»; mi spiace molto, ho sbagliato, non succederà più». La Spagna – o almeno la maggioranza degli spagnoli – capì, e perdonò.
Perché Juan Carlos, che ha appena compiuto ottant’anni, non è solo un monarca da cronaca rosa; nonostante alla cronaca rosa abbia fornito molto materiale. È il fondatore della democrazia spagnola. Una favoletta revisionista vuole che Franco avesse preparato libere elezioni e multipartitismo. Al contrario, il Caudillo aveva puntato sul giovane Borbone allevandolo non come monarca costituzionale, ma come continuatore di un’autocrazia. Juan Carlos ebbe l’intelligenza di capire che un tempo era finito, e barattò il potere con la discrezione sulle proprie spese e sulla tolleranza sulla propria vita privata; comprese le corse notturne nel centro di Madrid su una delle sue 72 vetture sportive o sulla prediletta Harley Davidson. La Spagna fu governata così prima dal centro con Adolfo Suarez, poi dalla sinistra con Felipe Gonzalez (e in seguito Zapatero), quindi dalla destra con José Maria Aznar (e ora Rajoy). Quando il tenente colonnello Tejero tentò il colpo di Stato, aprendo il fuoco alle Cortes, Juan Carlos – dopo un’iniziale esitazione, ben raccontata dallo scrittore Javier Cercas in Anatomia di un istante – salvò la democrazia; l’esercito gli restò fedele; e il tentativo di ripristinare il regime degenerò in golpe da operetta, come tutti i golpe che non riescono.
Il suo patrimonio personale è leggendario. Qualcuno lo valuta in due miliardi di dollari. Va detto che il monarca ha anche procacciato enormi affari alle aziende spagnole, in particolare nei Paesi del Golfo. Ma quando nel mirino della magistratura finì sua figlia Cristina, Juan Carlos comprese che era il momento di farsi da parte. Ha saputo scegliere l’attimo: la destra del partito popolare era ancora salda al potere, la secessione catalana di là da venire.
Qualcosa però nel passaggio di poteri non ha funzionato. Il figlio Felipe VI, legatissimo alla madre Sofia, l’ha un po’ chiuso nel magazzino delle scope. Juan Carlos dal canto proprio gli aveva sconsigliato il matrimonio con una borghese, Letizia Ortiz. Il successore gli ha negato un ufficio alla Zarzuela, la residenza ufficiale, e non l’ha invitato alla cerimonia per i 40 anni della prima seduta del Parlamento spagnolo dopo la dittatura. Lui si è consolato girando il mondo e seguendo lo sport, dalle partite del Manchester City – la squadra del suo amico sceicco Mansour bin Zayed al-Nahyan – ai gran premi di Formula Uno. Molti spagnoli, juancarlisti più che monarchici, continuano ad amarlo. Qualcuno pure lo rimpiange. Focoso quanto il figlio è asciutto, latino quanto l’altro – el niño rubio, il bambino biondo – pare nordico, Juan Carlos riconosce di non aver mai letto sino in fondo un libro in vita sua, ma ha saputo farsi voler bene da quasi tutta la gente che ha incontrato. La sua intelligenza era più fiuto che cultura, più istinto che ragionamento. «Qui sono scarso», confessò una volta a un politico toccandosi la testa; «ma qui», e si toccò il naso, «sono imbattibile».