Un Quarantotto da ricordare

/ 01.10.2018
di Orazio Martinetti

Manifestazioni, comizi, barricate, strade e piazze occupate. E poi cannonate sulla folla, esecuzioni, esilio. Il 1848 fu un anno di rivolte, da Parigi (epicentro delle sommosse) a Berlino, da Budapest a Vienna, da Milano a Napoli, a Palermo. Operai, plebei e artigiani reclamarono a gran voce la repubblica, l’introduzione del diritto al lavoro, il suffragio universale (maschile); in Germania e in Italia, paesi divisi in tanti principati e granducati, prese forza il progetto dell’unificazione nazionale, e quindi della guerra contro le dinastie che il congresso di Vienna del 1815 aveva rimesso in sella (periodo detto della Restaurazione). 

L’anno non ebbe un esito felice. L’ordine fu riportato in tutte le principali città investite dalla bufera rivoluzionaria. Anche gli austriaci si ripresero Milano dopo cinque giorni di combattimenti. Carlo Cattaneo, rifugiatosi prima a Parigi e poi a Lugano, ne stese un primo bilancio nel volume L’insurrection de Milan en 1848, riedito in italiano l’anno successivo sotto il titolo Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (Tipografia della Svizzera italiana): un bilancio amaro, il suo, che tuttavia si chiudeva con parole di speranza: «il principio della nazionalità, provocato e ingigantito dalla stessa oppressione militare che anela a distruggerlo, dissolverà i fortuiti imperii dell’Europa orientale; e li tramuterà in federazioni di popoli liberi. Avremo pace vera, quando avremo li Stati Uniti d’Europa».

I moti del 1848 percorsero il continente come una lingua di fuoco, portando alla ribalta soggetti politici stanchi del vecchio assetto monarchico: patrioti, repubblicani, democratici, socialisti. E anche leghe che si autodefinivano comuniste, gruppi giudicati sovversivi e perciò costretti ad operare nella clandestinità. Il passaggio dalla lega al partito fu deciso dal «Bund der Kommunisten» nel dicembre del 1847. L’incarico di stenderne il manifesto fu affidato ad un giovane intellettuale tedesco, Karl Marx, allora esule a Bruxelles, polemista vigoroso. Lo scritto, anonimo e pubblicato in tedesco sotto il titolo Manifest der kommunistischen Partei, uscì a Londra nel febbraio del 1848 dai torchi di due diverse stamperie: Burghard e Hirschfeld. L’edizione Burghard contava 23 pagine, l’edizione Hirschfeld 24 (diventate 30 nelle edizioni successive). Un libro smilzo ma dal contenuto esplosivo. Marx, con l’aiuto dell’amico Engels, aveva gettato le basi di un socialismo reale, scientifico, e non più utopistico com’era nei voti dei precursori. 

Nel frattempo anche la Confederazione si era proposta di sanare le ferite aperte dal breve ma lacerante scontro armato del «Sonderbund». Il 12 settembre del 1848 si dava una nuova Costituzione «allo scopo di rassodare la lega dei Confederati» formata da ventidue cantoni sovrani. Il Ticino la respinse, per ragioni più pratiche (politica daziaria) che ideali, ma ormai la rotta era tracciata: un cammino verso un maggiore accentramento di compiti e funzioni nella nuova capitale o «città federale» (Berna), un’assemblea legislativa bicamerale (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati), un esecutivo (Consiglio federale) composto di sette membri. Sebbene la tradizionale denominazione restasse in uso (confederazione), di fatto la Svizzera si apprestava ad assumere i tratti di uno Stato federale.

Tutto questo accadeva 170 anni fa, ma di questa ricorrenza – è vero, non tonda – si è parlato poco in queste settimane. Eppure il nostro ordinamento moderno nacque in quell’anno denso di avvenimenti. Lo storico Rolf Holenstein ha recentemente trascritto e raccolto in volume i verbali che alcuni delegati alla Costituente convocata a Berna, nel Rathaus zum Äusseren Stand, redigevano come promemoria all’indirizzo dei rispettivi governi cantonali, per informarli dell’andamento dei lavori ma anche per ricevere consigli. Nessuno finora aveva intrapreso un’opera simile. Ne è uscito un librone di un migliaio di pagine, Stunde Null. Die Neuerfindung der Schweiz im Jahr 1848 (Ora zero. La reinvenzione della Svizzera nell’anno 1948), in cui è possibile osservare, seduta dopo seduta, progressi e resistenze, proposte e revisioni di un’assemblea chiamata a lasciarsi alle spalle anni burrascosi, ancora segnati da sospetti e profonde fratture (cattolici/protestanti, città/campagne, vecchi e nuovi cantoni). Occorreva bilanciare i poteri, fare in modo che una parte, quella urbana, non schiacciasse sistematicamente le minoranze rurali o periferiche. Alla fine la soluzione migliore fu individuata nel bicameralismo d’ispirazione americana: due camere paritarie, l’una espressione del popolo, l’altra dei cantoni. Nel mese di novembre i due consessi riuniti elessero il primo esecutivo centrale («Bundesrat») della nuova Svizzera liberale, un collegio in cui figurava anche il ticinese Stefano Franscini.