Approfittando di compiti famigliari, ho trascorso la prima giornata dell’anno al mare. Erano già tutti abbronzati. E tutti nelle abituali postazioni, forse una ruga, un capello bianco in più. La vedova del giudice in prima fila, legge Montalbano e intercetta le donne di passaggio, per una piacevole e obbligatoria sosta a rinfrescar loro e a farsi raccontare i casi della vita. Insomma, gossip. Sull’altro lato della passerella di cemento (salvezza dai bollori della sabbia), le ragazze con costumi ridotti, le dannate del sole. Immobili, impietrite, rosolano un lato dopo l’altro. Ad alleviare la pena solo qualche goccia d’acqua da spruzzini come quelli che si usano per stirare, forse sono proprio quelli.
I bagnini non sono più ragazzi, ma sono sempre scanzonati. Lavorano alacremente, come sempre: uno toglie la ruggine dalle giunture delle porte delle cabine, maledicendo i clienti che pretendono di avere tutto pronto, «e siamo solo a giugno». Forse pensa di dover accogliere i bagnanti non prima di Ferragosto, comunque è infuriato, e per questo a sera avrà pulito un paio di giunture. Gli altri due si alternano, a turno accompagnano i nuovi venuti al loro ombrellone e poi si riposano alla sua ombra, sonnecchiano e accompagnano. I più attivi sono i venditori di cocco, bigiotteria, gelati. Saranno abusivi, ma dovendo guadagnarsi la giornata esercitano le arti del commercio con smaccata abilità, sento un senegalese spiegare alla famigliola di un medico di Bologna che a Milano, «che è un po’ come Dubai», si portano parei in tutto simili a quelli che sta vendendo lui. Non posso che approvare, chi non usa parei colorati come quelli nei sotterranei del metrò rosso o per le vie trafficate del centro, all’ombra del Duomo, in galleria Vittorio Emanuele? Mentre immagino consiglieri d’amministrazione in infradito, avvocate con i fiori tra i capelli, commesse che solo per un attimo hanno appoggiato il canotto, rifletto su quanto mi sta accadendo intorno. È un presepe. Ma non di quelli che ogni anno si modificano e le montagne ora sono qui ora lì, e il fabbro è vicino alla capanna e invece l’anno successivo è lontano, dietro alle case. No no, di quelli fissi, che si tolgono dall’armadio, una spolverata e ritornano al loro posto immutati.
Anche su questa spiaggia è tutto uguale a se stesso, le novità dell’anno sono state rapidamente archiviate con il primo rivedersi: morti, nascite, matrimoni e divorzi, e poi si torna al cocco bello e a rosolare la pelle al sole. È così che ci piace, perché almeno in vacanza riusciamo nell’impresa sovrumana di fermare il tempo. I filosofi lo sanno, l’uomo è l’unico animale che sa di dover morire (sì, anche mucche e maiali condotti al macello piangono, ma piangono davanti alla morte, non ci avevano mai pensato prima). Per questo da secoli si è ingegnato, o ipotecando luoghi meravigliosi dove ogni lacrima sarà consolata, o dichiarando che lo scorrere del tempo è solo un’illusione. A noi sembra che le cose passino, ma in verità ritornano. Lo sostiene oggi Emanuele Severino, prima di lui lo hanno detto – in base a differenti visioni del mondo – Parmenide, Spinoza, Nietzsche. In una fissità eterna, qualcosa appare all’esistenza, emerge e poi torna nel mare dell’essere – da cui comunque non ha mai preso congedo, tanto che questo apparire è scandito dall’essere uguale a se stesso, perché tale ritorna e ritornerà sempre. Il mutamento, quindi, è solo apparente, tutto ciò che accade è già accaduto e in eterno accadrà.
Un incubo? No, una gioia, risponderebbe Severino. La storia infatti non si fa di attimo in attimo sorprendendo gli umani, la storia è già scritta. Il singolo non ha responsabilità per quanto viene all’apparire, non deve avere aspettative, non può permettersi speranza o contrarietà. Con la saggezza del sapiente stoico, se l’uomo accetta di essere inserito nell’illusione del divenire, sarà anche consapevole per questo di far parte dell’eterno essere. Non avrà paura di nulla, la sua vita sarà rallegrata dalla gioia di chi non può volere niente di meglio, un sentire razionalmente inattaccabile. Ora, poi, che i sapienti siano gioiosi è tutto da dimostrare, trovandosi tra i filosofi gli uomini più tristi e depressi ch’io abbia mai conosciuto.
Amleto, per esempio, che ha una simile visione del mondo, non si può dire né allegro né spiritoso. Sa bene, il principe di Danimarca, che solo la paura di «qualcosa dopo la morte» ci trattiene dal raggiungere la pace, dal liberarci di questo «groviglio mortale» (lui dovrebbe avere qualcosa di più di una vaga paura, perché ha ben visto e ascoltato lo spettro di suo padre). Mentre sembra così desiderabile «morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire fine alla stretta del cuore e ai mille tumulti naturali che eredita la carne». Gesto che tra l’altro non riesce per nulla difficile ai miei bagnini, che nel primo pomeriggio meritano quel sonno all’ombra degli ombrelloni, i piedi sul tavolino, il cappello scivolato in avanti, «dormire, forse sognare».