A proposito di #metoo, varrebbe la pena ricordare non solo lo sfruttamento in ambito di jetset cinematografico, e varrebbe la pena non limitarsi alla molestia sessuale. Un filone sotterraneo è quello dell’«abuso» intellettuale realizzato da uomini (Uomini) di cultura al di sopra di ogni sospetto su donne al di sotto di ogni visibilità. Donne invisibili che lavorano da negresses per i grandi personaggi del mondo culturale.
Ultimo caso affiorato alla luce è quello di Salvatore Quasimodo, premio Nobel della Letteratura nel 1959. Ebbene, un saggio recente, titolo Nell’ombra del poeta, autrice la studiosa Elena Villanova (Carocci editore, cui va assegnato un 6 – per il coraggio impressionante con cui continua a pubblicare saggistica letteraria di qualità), rivela che un bel malloppo di traduzioni da lui firmate non è farina del suo sacco. Nel Centro Manoscritti di Pavia si conservano le carte delle versioni dell’Antologia Palatina (quasi trecento epigrammi greci che sarebbero stati pubblicati in volume da Guanda nel 1958): se finora si pensava che quelle carte testimoniassero le varie fasi del processo di traduzione realizzato dallo stesso Quasimodo, adesso si scopre che il grosso del lavoro, quello preliminare, si deve a Caterina Vassalini, professoressa di greco e latino al liceo Maffei di Verona.
Dalle 172 lettere (inedite) inviate al poeta risulta chiaro che è lei a studiare l’originale greco, a confrontare le varie edizioni, a risolvere i problemi di interpretazione e persino a fare la scelta antologica. Al poeta non resta che riformulare in versi la traduzione di base («interlineare e di scolastica memoria») che gli veniva fornita dalla Vassalini. La quale passa dalla venerazione gratuita («C’è stato un tempo – scrive – in cui mi sarebbe bastato questo: di correggere le Sue bozze, senza sperar mai di vedere il mio nome accanto al Suo») all’atroce delusione e irritazione di sapersi sfruttata e di vedersi «eliminata».
Quando per esempio, lamenta di non comparire nel catalogo Guanda pur essendo lei l’autrice dell’Introduzione del Fiore dell’Antologia Palatina. E si capisce la delusione se si approfondisce, nelle lettere, la fatica immane che comporta quel lavoro oscuro: «Sto battendo a macchina gli ultimi sessanta epigrammi, finiti all’alba stamane». Unita all’umiliazione del dover subire la «violenza verbale» del Grande Poeta (voto 2) quando lei rivendica qualcosa di più. Le resterà una piccola possibilità di vendetta nel rivolgersi a Giuseppe Ungaretti, che del poeta siciliano era nemico giurato e dunque immediatamente pronto a darle ascolto. È vero che nell’aprile 1960 troviamo la Vassalini a Patrasso con Quasimodo in visita ufficiale, ma questo non basta a immaginare che si sia trattato di un viaggio compensatorio.
In realtà la «negritudine» femminile è stata un malcostume diffuso nell’ambiente letterario italiano. C’è una Gentile Signora alla quale parecchi scrittori dovrebbero essere grati. E non sono nomi da poco: Elio Vittorini, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, il poeta ligure Camillo Sbarbaro e altri. Si chiama Lucia Morpurgo e dopo il matrimonio con il pittore Paolo Rodocanachi detto Cian, celebrato nel 1930, sarà nota con il cognome del marito. Le lettere di Vittorini alla Rodocanachi, pubblicate nel 2016 dalla casa editrice Archinto, sono significative e a tratti dolorose. È una collaborazione controversa, che prende avvio nel 1933 e che dura per un decennio circa: con traduzioni impegnative, da D.H. Lawrence, Somerset Maugham, Faulkner, Powys, Saroyan, Steinbeck, Fante, Poe, Defoe, Wilder, Dickens, Galsworthy, Shakespeare… Con la promessa, non mantenuta, di rendere visibile, accanto a quello del Grande Scrittore (voto 2), il nome della Gentile Signora, che rimarrà invece relegato sempre nell’oscurità. E anche sul piano economico le cose non andranno per nulla lisce, tra compensi in ritardo o addirittura negati.
«Farsi aiutare – ha notato il critico Edoardo Esposito – rientrava, ieri come oggi, in una pratica moralmente discutibile eppure largamente seguita». Con risvolti però anche molto imbarazzanti. Come quando, nel dicembre 1935, l’«indegno amico» (così si definiva Vittorini nelle fasi in cui il senso di colpa del «negriero» si faceva più acuto), trovandosi squattrinato a Milano, falsificò la firma per incassare un assegno intestato alla stessa Rodocanachi. Pochi sanno del resto che il grande Montale, dopo aver sfruttato la stessa Gentile Signora, ebbe una bega giudiziaria mica da poco nel 1947 in seguito a una causa per plagio intentata da Bice Chiappelli per la traduzione di Strano Interludio di Eugene O’Neill. Fu un iter lunghissimo, per cui il poeta a un certo punto non dormiva di notte: «se non esco bene da questa faccenda impazzisco», scrisse in una lettera. Ne uscì malissimo nel 1953, con una condanna (voto 2).