L’estate non è ricca di notizie economiche. Di questi tempi, quindi, i commentatori economici dei giornali e di altri media di comunicazione sono particolarmente grati a chi, imprenditori, finanzieri o politici, butta sul tavolo delle discussioni un nuovo tema. Proprio come ha fatto il presidente del PPD Gerhard Pfister, un paio di settimane fa, segnalando quanto pericolosi potrebbero essere gli investimenti della Cina in Svizzera e quanto ingenua sia la posizione di coloro che, come fanno molti rappresentanti dell’Amministrazione federale, continuano a pensare che non ci si deve preoccupare più di quel tanto. Intendiamoci, questo argomento proprio nuovo non è. Dibattiti analoghi erano già nati, nel corso degli ultimi anni, in altri paesi come pure da noi, in occasione di acquisti di importanti aziende da parte dei cinesi. Gli stessi avevano addirittura indotto i rappresentanti della Francia, dell’Italia e della Germania a scrivere, all’inizio dello scorso anno, alla commissione dell’UE per chiedere che si mettesse in atto, su scala europea, un meccanismo di osservazione degli investimenti cinesi. Il presidente del PPD non è quindi l’unico politico in Europa a preoccuparsi di questo problema. Ma che fondamento ha questa paura degli investimenti da parte dei cinesi?
Cominciamo dalle cifre. Gli investimenti cinesi in Europa – come negli altri continenti – sono cominciati ad aumentare dalla crisi bancaria mondiale del 2008 in poi. Così, nel 2010, gli investimenti diretti della Cina (senza contare Hong Kong), nei paesi dell’UE, ammontavano a 2 miliardi di euro. L’anno scorso questo montante era salito a 65 miliardi euro. Sono dati impressionanti per persone normali come noi che già si spaventano quando il nostro comune aumenta il prezzo del parcheggio da 1,50 a 2 fr. l’ora. Ma che cosa significano 65 miliardi rispetto al capitale investito nelle aziende (private e pubbliche) delle economie dell’UE? Significano, per il momento, meno dell’1 per mille di questo aggregato. Difficile che un azionista che possiede meno dell’1 per mille del capitale possa esercitare una forte influenza nella gestione dell’azienda.
A questo punto della discussione cominciano però a sorgere i dubbi e gli interrogativi. Gli stessi sono motivati in generale dal fatto che gli investimenti diretti cinesi sono selettivi. Insomma, non è che i capitalisti cinesi comperino a occhi chiusi qualunque possibile azienda come facevano invece, una cinquantina di anni fa, i loro colleghi degli Stati Uniti. Se oggi l’Europa, e domani la Svizzera, si daranno da fare per frenare gli investimenti diretti dei cinesi è perché questi si concentrano molte volte in settori e rami che possono essere strategici per le loro economie. Ha fatto discutere, qualche anno fa, l’acquisto da parte dei cinesi dalla Syngenta di Basilea, una ditta molto importante dell’agro-chimica. Più di recente, in Germania, ci sono state molte prese di posizione contrarie al tentativo cinese di acquistare la Kuka, una ditta leader nel ramo della robotica. E di esempi di questo tipo se ne potrebbero citare altri. Per il momento, quindi, le preoccupazioni di politici e imprenditori, da noi come in Europa, non riguardano tanto il montante, che cresce molto rapidamente, degli investimenti diretti della Cina, quanto singole operazioni effettuate dai cinesi in rami economici strategici.
Nessuno pensa di bloccare questi investimenti per difendere gli interessi nazionali. Molti sono però dell’avviso che 1) si dovrebbe poter seguire con maggiore attenzione gli investimenti diretti dei cinesi, in Svizzera come in Europa e 2) si dovrebbe cominciare a mettere, per così dire, sottochiave, certe aziende che vengono reputate strategiche e che, per questa ragione, non dovrebbero mai essere cedute al capitale straniero, indipendentemente da dove venga. Ma come fare per sottrarre aziende importanti all’appetito di investitori stranieri, in particolare di investitori cinesi? Beh, per esempio dichiarandole di interesse pubblico, ossia statalizzandole. I miei lettori si tranquillizzino: non c’è attualmente nessuno che abbia proposto di proteggere le aziende svizzere dai raid degli investitori cinesi integrandole nel settore pubblico. D’altra parte, con gli investitori cinesi alle porte, bisognerà procedere con molta prudenza, prima di privatizzare imprese statali di importanza strategica.