Un copione già visto

/ 21.11.2016
di Peter Schiesser

Metterà davvero in pratica quel che ha detto in campagna elettorale, Donald Trump? Certamente! O forse no. Ma, comunque, The Donald è stato eletto sull’onda di un messaggio chiaro: America first; ossia frontiere chiuse, meno commercio mondiale, più distacco dal resto del mondo. In breve: stop alla globalizzazione. Con tutto il possibile corollario di dazi sulle importazioni e possibili guerre commerciali (già minacciate, in particolare contro la Cina). Senza dimenticare un dettaglio: la riluttanza ad esercitare il ruolo di gendarme morale e politico del mondo non corrisponde ad un disimpegno militare, Trump si è mostrato molto favorevole a dare sufficienti mezzi all’esercito – perché gli interessi dell’economia statunitense andranno comunque assicurati, in caso di necessità. 

La forza di questo messaggio è tale che sta avendo un impatto prima ancora che Trump entri in carica. La Trans Pacific Partnership, firmata quest’anno dall’Amministrazione Obama con 11 Paesi che si affacciano sul mare Pacifico in evidente funzione anti-cinese, è considerata morta, il Congresso non la approverà. Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, il TTIP, ossia una zona di libero scambio che comprenda l’Europa e il Nordamerica, non avrà probabilmente neppure l’onore di essere firmato. Per ora si salva giusto il Ceta, l’accordo tra UE e Canada, la cui fragilità è emersa di fronte all’opposizione dell’insignificante ma determinante Vallonia belga.

E Trump è in buona compagnia: la pressione di Bernie Sanders, l’anima di sinistra del Partito democratico, aveva già sospinto Hillary Clinton verso lidi più protezionistici. Anche lei non è sola: in Europa, oltre alla sinistra c’è una destra nazionalista che getterebbe volentieri a mare la globalizzazione economica (con la differenza che la prima sogna frontiere solidarmente aperte, la seconda ermeticamente chiuse e in armi). Insomma, la globalizzazione arretra.

Un fenomeno nuovo? Racconta sul «New York Times» (14.11.’16) l’economista Ruchir Sharma che nella seconda metà dell’Ottocento l’avvento delle navi e dei treni a vapore e del telegrafo («l’internet dell’era vittoriana») aveva impresso un’accelerazione al processo di globalizzazione economica, i commerci mondiali e le transazioni finanziarie sulle due sponde dell’Atlantico esplodevano. Questo aveva favorito enormemente i più ricchi ma creato risentimento nelle masse, portando a poco a poco all’affermazione di nazionalismi aggressivi. Ciò condusse dapprima alla prima guerra mondiale, poi seguirono politiche protezionistiche e chiusure di frontiere, accentuate dopo la grande crisi finanziaria del 1929, che prepararono il terreno all’avvento dei fascismi in Europa. Solo negli anni Settanta il commercio mondiale tornò ai livelli precedenti la Grande Guerra, e solo negli anni Novanta la globalizzazione riprese slancio, in seguito all’implosione dell’Unione Sovietica, all’apertura economica della Cina, contemporaneamente all’avvento di internet e delle nuove tecnologie informatiche. 

Le analogie con quanto avvenne un secolo fa non sono poche. Anche oggi assistiamo ad un rallentamento della globalizzazione, ad un cambiamento di mentalità nelle masse (in Occidente). E in sordina questo sta avvenendo da prima dell’avvento di Trump: negli ultimi tempi USA, Cina, Russia, India hanno imposto sempre più misure protezionistiche, raggiungendo quota 350 nel 2016, dalla cinquantina registrata nel 2009. Contemporaneamente, si assiste a livello planetario ad una perdita di libertà personali. Speriamo che il futuro non riproponga quel vecchio copione ancora una volta.