Un argine all’imperialismo cinese

/ 26.11.2018
di Peter Schiesser

La strategia americana di contenimento della Cina sta prendendo forma: dopo il discorso in cui il 4 ottobre ha attaccato senza mezzi termini la Cina, al vertice APEC nella Papua Nuova Guinea il vice presidente Mike Pence ha alzato il livello delle critiche, definendo la Belt and Road Initiative (BRI, il progetto cinese di rete di trasporti terrestri e marittimi che dovrà collegare Asia e Europa, ma anche la Cina con l’Africa) una «cintura opprimente» e una «strada a senso unico». Come analizza a pagina 25 Lucio Caracciolo: la guerra fredda fra le due maggiori potenze mondiali è cominciata.

Non è un caso che il vertice APEC si sia chiuso senza una dichiarazione comune. Il gelo fra Stati Uniti e Cina è palpabile e il nervosismo dei cinesi pure, come rivela un episodio: in violazione di qualsiasi norma diplomatica, quattro funzionari cinesi sono penetrati nell’ufficio del ministro degli esteri della Papua Nuova Guinea, Rimbink Pato, per indurlo a modificare il testo della dichiarazione finale, suggerito dagli Stati Uniti con l’appoggio di altri paesi. I funzionari sono poi stati allontanati dalla polizia, ma nessuno, nemmeno la popolazione, ha gradito questa dimostrazione di arroganza da parte cinese. E così la visita di Xi Jinping sull’isola, così ben orchestrata, con striscioni di ringraziamento alla sua persona e folle di indigeni che impugnavano bandierine cinesi, è finita male: la Cina si è trovata isolata.

Ciò suggerisce una prima lezione di geopolitica: non comandi il mondo se non crei una rete di alleanze. E la Cina questa rete non ce l’ha. Non cerca alleati, cerca vassalli, da poter dominare o controllare. Per esempio, la Cina non concede mai capitali a fondo perso, solo crediti interessanti per chi presta, e bada a finanziare infrastrutture che possano servirle nell’ottica della sua BRI e di altri interessi economici, oppure progetti di prestigio che danno lustro ai governanti locali che con tanto servilismo hanno lasciato mano libera ai cinesi. Nella Papua Nuova Guinea ha finanziato strade (Xi Jinping ha inaugurato un tratto di autostrada a sei corsie) e per 50 milioni di dollari la ristrutturazione di un centro di congressi. Questa politica cinese, fino a ieri baciata dal successo, oggi comincia a scricchiolare. Malaysia e Pakistan hanno rinunciato ad alcuni mega-progetti (stipulati con Pechino da precedenti governi) per non cadere in una dipendenza imperiale, le Maldive hanno cambiato presidente, considerato troppo filo-cinese. L’esempio dello Sri Lanka, costretto a cedere per 99 anni il rinnovato porto di Hambantota e dei terreni industriali circostanti (con a poca distanza il nuovissimo e inutilizzato Rajapaksa International Airport, a Mattala, perfetto per le future esigenze cinesi) ha spaventato molti paesi, finalmente consapevoli del pericolo della trappola del debito.

E la riconquista del Pacifico da parte degli Stati Uniti parte proprio dalla Papua Nuova Guinea. Se nei primi mesi della sua presidenza Trump ha denunciato il trattato TTIP per la cooperazione economica fra i paesi che si affacciano sul Pacifico, lasciando così l’iniziativa a Pechino, oggi con Mike Pence gli Stati Uniti segnalano che sono tornati sullo scacchiere del Pacifico. Per cominciare, si impegnano assieme a Australia e Giappone a portare elettricità al 70 per cento degli otto milioni di abitanti della Papua Nuova Guinea (grande 10 volte la Svizzera), rispetto al 13 per cento attuale, inoltre stanno valutando se non creare una base navale militare sull’isola. Assieme a India, Giappone e Australia, l’America sta creando una cintura di contenimento della Cina, nella consapevolezza che ogni superpotenza ha bisogno di alleati, checché ne pensi Trump.