Un altro giro sulla giostra elettorale

/ 04.03.2019
di Orazio Martinetti

Si è soliti pensare che il dibattito politico lasci indifferenti e che infiammi gli animi solo di gruppi ristretti, coloro che vivono nelle istituzioni e nei partiti. Sondaggi ed esperienza quotidiana confermano questa impressione, con dati certamente allarmanti per lo stato di salute della democrazia. La disaffezione trova conferma in tassi di partecipazione al voto decrescenti, il che finisce per consegnare il paese alle minoranze più motivate e organizzate.

Il disinteresse non è tuttavia uniforme. Votazioni ed elezioni mobilitano fasce di cittadinanza variabili. Nei referendum e nelle iniziative ci si esprime su quesiti; nelle elezioni su partiti e persone (candidati). Nel primo campo si fa appello alla razionalità del votante, nel secondo alle passioni e alle simpatie (questo in linea teorica: nella pratica i due piani s’intersecano).

Il Ticino ha sempre riversato nella contesa elettorale un capitale di emozioni superiore alla media. Nell’Ottocento il confronto tra liberali e conservatori sfociava regolarmente in lotte furibonde, risolte ricorrendo alle maniere forti, a randelli e carabine. Per riportare la quiete la Confederazione inviava nel riottoso «Südkanton» commissari e contingenti armati. Questo fino alla rivoluzione del 1890, anno in cui divenne chiaro che bisognava voltar pagina, deporre le armi e superare gli steccati. La soluzione fu individuata nel proporzionale, metodo che garantiva alle forze maggiori un’adeguata rappresentanza nel legislativo e, dal 1922, nell’esecutivo con il «governo di paese», formula ideata da Giuseppe Cattori che tuttora regge le sorti della nostra repubblica. In sostanza, la formula prevedeva che solo il partito che otteneva la maggioranza assoluta dei suffragi avrebbe potuto rivendicare legittimamente la guida del paese. Traguardo che evidentemente era impossibile da raggiungere in quella costellazione di forze.

Molto si è discusso sulla bontà dei due sistemi, se sia meglio il proporzionale o il maggioritario, quali i vantaggi dell’uno e quali gli inconvenienti dell’altro per la governabilità, disputa che lasciamo volentieri ai politologi. Qui ci limitiamo ad evidenziare un fatto: la capacità, da parte del sistema proporzionale, di favorire e stimolare la partecipazione alla gara elettorale. La prova l’abbiamo sottocchio in queste settimane: oltre settecento candidati per il Gran Consiglio, interventi sui quotidiani, pagine su pagine con proposte, suggerimenti, considerazioni varie. E poi congressi, dibattiti radiotelevisivi, feste e aperitivi, cartelloni e «santini», il tutto ripreso e moltiplicato nelle reti sociali dentro un gioco di specchi infinito.

Certo, gli eletti, al termine della corsa, saranno pochi, cinque da un lato (Consiglio di Stato), novanta dall’altro (Gran Consiglio). La maggior parte si dirà contenta di aver potuto accompagnare nella campagna il capolista. Ma intanto hanno avuto modo di farsi conoscere, di apparire in televisione, di ritagliarsi uno spazio: non è detto che al prossimo giro non scatti l’opportunità di risalire la graduatoria e pretendere un ruolo che non sia più quello della comparsa.

Resta da capire che risultato tangibile produrrà tutta questa agitazione, tutto questo sfoggio di sorrisi e promesse: in che modo si potrà realmente intervenire negli snodi che più angustiano la società, come i costi del settore sanitario con le relative ripercussioni sulle quote assicurative, l’occupazione (sempre più precaria), il traffico, la tutela dell’ambiente, la scuola. Negli ultimi anni il ceto medio, la formica che produce e risparmia, è visibilmente scivolato verso i gradini bassi della scala sociale. Chi sta in alto vive spensierato, chi sta in basso riceve i sussidi, chi sta in mezzo deve invece cavarsela da sé, soppesando attentamente introiti e spese. «Salvare» il ceto medio senza dimenticare o calpestare chi sta ai piedi della scala dovrebbe figurare tra i punti qualificanti di ogni programma elettorale.