Ue, tanti auguri e buona continuazione

/ 20.03.2017
di Orazio Martinetti

L’Unione europea – alla nascita Mercato europeo comune – festeggia i suoi primi sessant’anni. Auguri vivissimi, salute e prosperità. Lo diciamo senza ironia. In precedenza il continente era molto meno rassicurante e stabile, lacerato da guerre commerciali e finanziarie. Il secondo conflitto mondiale l’aveva ridotto in macerie. I nuovi equilibri, fondati sul duello Usa-Urss, non promettevano un futuro sereno. La corsa agli armamenti nucleari appariva inarrestabile, incontenibile. Vaso di coccio tra due vasi di ferro, l’Europa cercava la rappacificazione e la rinascita; la trovò dapprima stipulando accordi sulla produzione del carbone e dell’acciaio (Ceca) e poi nei trattati di Roma del 1957 istituenti la comunità economica e la collaborazione per l’impiego pacifico dell’energia atomica (Euratom).

La Svizzera rimase in disparte ma vigile, attenta alle mosse dei vicini. Aderire oppure no? Mettere in gioco la propria secolare neutralità oppure no? Intorno a questi interrogativi prese avvio nel paese un intenso dibattito, sfociato infine nell’adesione all’Aels, l’associazione di libero scambio: una scelta che molti giudicarono minimalista e in fondo poco utile, visto che la Svizzera confinava con i paesi fondatori del Mec: Germania occidentale, Francia, Italia. Imboccando questa strada – si sostenne allora da parte di alcune minoranze intellettuali – la Confederazione finiva per auto-castrarsi, per ibernare il suo stesso patrimonio genetico, la sua morfologia decentrata e policentrica, embrione e modello di un’Europa delle regioni. Tra i più combattivi assertori dell’idea federalistica va ricordato Denis de Rougemont, l’unico pensatore svizzero tuttora citato nel mondo quando si discorre di questi argomenti. Rougemont scrisse numerosi saggi divulgativi, ma fu attivo anche come organizzatore culturale. Le sue iniziative attirarono politici e intellettuali di diverso orientamento, ma tutti animati da questo grande ideale, il federalismo, antico ma rimasto a lungo sotto traccia, muto, soffocato dal nazionalismo e dal razzismo. Si spiega anche così, da questi semi sparsi nel terreno tra Ginevra, Losanna e Neuchâtel, il maggior tasso di europeismo maturato in Romandia nel corso degli anni.

Un immissario di questo largo fiume federalista attraversò anche il canton Ticino: accadde nel giugno del 1944, allorché Ernesto Rossi, in fuga dal fascismo dopo aver trascorso numerosi anni in galera e al confino, fece uscire nelle Nuove Edizioni di Capolago un suo scritto sotto lo pseudonimo di Storeno. Il saggio, dal titolo Gli Stati Uniti d’Europa, annodava i fili di una feconda riflessione coltivata sull’isola di Ventotene in quotidiano dialogo con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni. Una volta deposte le armi, sarebbe stato questo il traguardo verso cui marciare, «la più grandiosa costruzione della nostra civiltà occidentale, l’inizio di tutta un’epoca di nuovo, più vero umanesimo».

La costruzione dell’Europa comunitaria è stata senz’altro il più grande progetto mai tentato nel vecchio continente sotto le insegne della democrazia. Non che nel passato fossero mancate ambizioni sovranazionali. Ma tutte scaturivano da megalomanie dinastiche, imperiali, maturate nelle corti e attuate con la forza persuasiva degli eserciti. Ora finalmente l’idea camminava sulle gambe di poteri direttamente o indirettamente legittimati dal voto popolare: procedure ancora parziali e insufficienti, imperfette ma non classificabili come dispotiche. La tappa successiva, l’introduzione della moneta unica, apparteneva ancora all’alveo economico-finanziario, ma nel contempo schiudeva orizzonti inediti basati sulla fattiva cooperazione tra gli Stati membri. L’allargamento ad est, nell’area dell’ex blocco comunista, forniva ulteriori garanzie di pace.

Economia, valuta, ma anche programmi scientifici, giovani, università: con la promozione di un gran numero di iniziative varate sotto il patrocinio delle istituzioni europee vedeva la luce, pian piano, uno spazio dell’anima caratterizzabile come pollone di una coscienza europea ; i «progetti cofinanziati da…» permisero alle regioni più povere di realizzare infrastrutture ch’erano rimaste per decenni nel cassetto.

«L’Europa si costruisce», soleva dire il medievista Jacques Le Goff inaugurando una speciale collana editoriale dedicata all’argomento; «È una grande speranza che si realizzerà soltanto se terrà conto della storia: un’Europa senza storia sarebbe orfana e miserabile». Ora però questa speranza sembra svanire sotto il tiro incrociato di un’alleanza composita, che le rinfaccia manchevolezze di ogni tipo, nel campo dell’occupazione, delle migrazioni, del credito, della socialità, della difesa. Un elenco sempre più lungo e nutrito, che agisce giorno dopo giorno come un agente corrosivo.

Sparare sull’Ue è diventato uno sport nazionale quasi ovunque. Perché porta voti e permette di scaricare le responsabilità all’esterno, oscurando le proprie; perché consente di indicare un nemico alla folla crescente degli scontenti e dei dimenticati. L’Unione europea ha certamente bisogno di profonde riforme per eliminare sprechi ed efficienze. Ma cancellarla, come molte forze nazional-populiste vorrebbero, significa regredire allo stato ferino che ha incenerito la prima metà del Novecento.