Tutto il fascino di antichi amori

/ 10.07.2017
di Maria Bettetini

Esistono miti generici e probabilmente senza tempo: lui, lei, il cattivo, per esempio, o padre, figlio, donna. Ma c’è poi chi è capace di dare nomi e caratteri a queste figure che se non sono nominate rischiano di perdersi tra storia e memoria. Mi sono imbattuta recentemente in due casi, noti a tutti, eppure mai banali. Ho letto un romanzo breve intitolato Romeo e Giulietta, ho visto per la prima volta per intero (quattro ore!) il film Cleopatra. I due amanti «nati sotto cattiva stella» sono tutti i giovani innamorati, ricchi di speranza e di incoscienza, sicuri del loro amore, travolti dalla malvagità degli adulti.

La vicenda, nell’imperfetta perfezione della tragedia di Shakespeare, non manca di nulla, così com’è da cinque secoli la leggiamo e vediamo a teatro. Possiamo però goderla anche nel balletto di Sergej Prokofiev, dove alle parole si sostituiscono i gesti: buffi, quelli della balia, delicati e pieni di passione quelli dei due giovani. Non so come sia il musical, che ha da poco debuttato, ma il musical mi pare un genere dalla fruizione relativamente facile, che porta a considerare la bellezza delle scene piuttosto che i contenuti della vicenda portata in scena. Riusciti sono certamente alcuni film tratti dalla tragedia: per ricordare i più importanti West Side Story, dove il dissidio è spostato negli anni 50 a New York e le due famiglie diventano due bande rivali (più che un musical sembra un’opera corale, l’autore infatti, Leonard Bernstein, ne ha tratto anche un’opera lirica). Poi il più che dolce Romeo e Giulietta di Zeffirelli e Romeo + Juliet di Baz Luhrmann, ambientato a Verona Beach, Los Angeles. Quest’ultimo riprende le parole di Shakespeare alla lettera, solo l’ambientazione è attuale, nonché il colpo di pistola che uccide Mercuzio al posto del pugnale.

Avendo in mente queste belle rivisitazioni, ho aperto con trepidazione il Romeo e Giulietta di Andrea Camilleri. È nascosto nell’antologia La Regina di Pomerania e altre storie di Vigata. L’inizio è straniante, ma è colpa della lingua: «Quanno che nel munno ’ntero s’arrivò a mità dell’anno milli e ottocento e novantanovi…» non è «In questa bella Verona, due casate, di pari nobiltà…». Una volta abituato l’orecchio, la storia è come quella degli amanti veronesi, ambientata nella Vigata del 1899. Le famiglie d’Asaro e Petralonga sono nemiche, il paese è diviso in due parti, se per errore si incontrano esplodono le risse e i morti. Capita però che al ballo pubblico della notte di San Silvestro, che avrebbe aperto il nuovo secolo, Mariarosa Petralonga e Manueli d’Asaro, sedicenni, si incontrano. Fanno parte entrambi della giuria per la maschera migliore e non si sono mai visti, dato che Mariarosa studia da sempre in Svizzera. Per caso si sfiorano le gambe e accade l’incredibile. I ragazzi si innamorano pazzamente anche se non si scambiano una parola, solo alla fine della festa lei scrive «Non posso partire senza rivederti» e lui «Ma io non ti lascerò partire». È una promessa di matrimonio. Da qui l’intrigo shakespeariano: i consigli degli amici, gli accordi per un finto rapimento, l’appuntamento all’alba con la scusa della confessione e della Messa di lei.

Non posso e non voglio raccontare tutto, basti dire che il finale è divertentissimo, trasforma la poesia degli amanti nati sotto cattiva stella nel realismo dei vigatesi, e tutto perché uno dei complici si innamora della «biddrizza» della tozza, animalesca e baffuta fantesca. Con un colpo di coda: un gesto che restituisce dignità a Mariarosa, lasciando Manueli umiliato, e con lui tutti i maschi della terra. Trovo delizioso questo uso del mito. Passiamo a quello di Cleopatra. Dunque, nello stesso giorno la televisione mi manda in onda Liz Taylor e i suoi 65 (sessantacinque) abiti di scena, alcuni in oro vero, e un documentario sulle monete con l’effigie di Cleopatra. Dal naso adunco, le labbra carnose, ma su bocca grande e all’ingiù, gli occhi sbarrati e un collo che nulla fa ben sperare per la linea della regina. Non che la Taylor fosse una silfide, il vitino strizzato è accompagnato da forme abbondanti, come usava nel 1961, quando è stato girato il film.

Allora, perché vogliamo a tutti i costi credere bella colei che ammaliò il padrone del mondo e il più caro amico, Cesare e Antonio? Anche l’Antonio e Cleopatra di Shakespeare parla di passione più che di forme leggiadre. Forse riteniamo che per una donna solo la bellezza possa garantire la seduzione. Che sciocchi, e dire che Plutarco, duemila anni fa, lo aveva capito benissimo: la bellezza di Cleopatra non era «tale che potesse sbalordire chi la guardava; ma aveva maniere così leggiadre, tanta grazia ed eloquenza nel parlare, che la bellezza di lei aiutata da queste cose faceva invaghire tutti. Dilettava anche il suo tono di voce, e la sua lingua sembrava uno strumento dalle tante corde».