Sono state elezioni crudeli. Renzi è stato punito al di là dei suoi demeriti. Resta il fatto che ormai nel suo stesso partito non lo vogliono più. Nella conferenza stampa in cui ha annunciato le dimissioni è parso un ex fuoriclasse, alla ricerca del tocco magico perduto. Si è abbandonato a recriminazioni improbabili. Difficilmente l’onda antisistema che ha travolto il Pd (e un po’ anche il partner mancato Berlusconi) sarebbe stata meno lunga, se l’Italia avesse votato insieme con l’Olanda o la Francia o la Germania; perché al Sud l’economia è messa decisamente peggio che in Olanda o in Francia o in Germania. E il risultato incerto di domenica scorsa non dipende dal No al referendum costituzionale, semmai dalla bocciatura dell’Italicum («ma con una sola Camera sarebbe stato inevitabile il ballottaggio, e la sera delle elezioni avremmo conosciuto il nome del vincitore» ha ribadito Renzi nelle conversazioni private). La sua parabola era già finita il 4 dicembre 2016. Quello di adesso non è neppure il punto finale; è un altro gradino verso gli inferi delle risse di partito e dell’agonia di una leadership.
Non è stata soltanto la prima campagna elettorale giocata in rete, senza comizi né manifesti né confronti tv. Sono state le prime elezioni decise in rete.
Intendiamoci: la grande rivolta contro l’establishment, il sistema, la casta, non è causata dalla rete, ma dalla crisi economica e dal crollo dei partiti e delle élite. Il disagio è reale, nasce dalla distruzione del lavoro, dai privilegi intatti, dalla corruzione crescente (cose vere, altro che fake news, il cui impatto è sopravvalutato). Ma la rete collega gli scontenti, li alimenta, li rinfocola. E chiunque abbia un curriculum, una storia, una competenza, diventa di per sé sospetto. Altro che «viva la scienza», come recita uno slogan Pd tra i più infelici di tutti i tempi, che non evoca Rita Levi Montalcini ma la professoressa accigliata che a scuola ci dava cinque meno meno.
Lega e Cinque Stelle, poco rappresentati in Rai, sono i partiti della rete. Salvini ha annunciato: «Su Facebook ho superato Macron. Ora in Europa sono secondo dopo la Merkel». La pagina Facebook del leader leghista in effetti è pensata in modo artigianale e sapiente. Ci sono una serie di video, in genere tratti da trasmissioni Mediaset: sedicenti antifascisti che picchiano poliziotti; un rumeno che rapina una vecchietta; una disabile italiana sfrattata; un africano che getta via il pane perché sostiene che non è buono (da solo l’africano sarà costato al Pd 500 mila voti). Salvini commenta i video con hashtag tipo «orabasta» e «stavoltavotoLega». Invita i fan a mettere per un giorno la sua faccia come foto del proprio profilo. Pubblica le sue immagini da bambino. Dà insomma l’illusione a chi lo segue di essere davvero suo amico. Non a caso il primo messaggio dopo il voto è stato su Facebook: «Siete stati fantastici, se abbiamo vinto una enorme parte del merito è vostra, splendida Comunità della rete, non dimenticatelo. Vi voglio bene». Al confronto, Berlusconi che confonde lire ed euro e cerca con affanno la parola giusta in tv agitando i soliti fogli bianchi fa tenerezza.
Anche Salvini va in tv, oltre che sul territorio. Ma usa i programmi tv e il territorio come fondale della sua vita on line. Questo vale a maggior ragione per i Cinquestelle, partito che on line è nato, e con Grillo superò il 25% senza mai affacciarsi in un talk show. Il racconto del M5S è perfetto per la logica della rete: di là «loro», i poteri forti, le caste, i media, i notabili; di qua il popolo, che aspira a mille euro al mese possibilmente senza fare nulla. Com’è evidente, in Italia i poteri forti latitano da tempo. Non sono scomparsi invece il mondo globale, l’Europa, i mercati, il debito pubblico: tutte cose antipatiche, con cui purtroppo bisogna fare i conti. L’Italia profonda della rete è maggioritaria: speriamo che sappia tradurre la rivolta morale in capacità di governo. Ma c’è da dubitarne. Di sicuro l’establishment dei partiti ha fatto di tutto per screditarsi: incredibile che in questi cinque anni non sia passato un provvedimento banale ma necessario come il dimezzamento delle indennità e l’abolizione dei vitalizi. Quanto alla sinistra, ha pensato pure a rifare il partito comunista: Errani a Bologna, Zanonato a Padova, Cofferati a Genova, Bassolino a Napoli, D’Alema in Puglia, Bersani ovunque, più Boldrini e Grasso, Fratoianni e Pippo Civati; tutto per prendere pochi voti in più di Potere al popolo, lista semiclandestina già idolo del web.
Ora fare un governo sarà difficilissimo. A Salvini, divenuto capo del centrodestra, non conviene certo andare a fare il vice di Di Maio. Per quanto Berlusconi abbia un certo know-how nel procacciarsi parlamentari, ne servono troppi; e poi perché dovrebbe lavorare per Salvini? Restano due formule possibili: un accordo tra Pd e Cinquestelle, magari per eleggere i presidenti di Camera e Senato e poi fare una legge elettorale maggioritaria a doppio turno; o un governo con tutti dentro, per fare la legge di bilancio e appunto la riforma elettorale (che la destra vorrebbe a turno unico).