Che cos’è questo rumore sordo che attraversa le pareti, questa falda freatica che lentamente sale dalle cantine, questo rubinetto spanato che non si riesce più a chiudere? È lo scontento fattosi ribellione che pian piano sta invadendo l’edificio della democrazia, in primo luogo i canali tradizionali della rappresentanza. Per descrivere questo fenomeno circola da tempo una parola: «populismo». È la rivolta popolare che nasce nel seminterrato dei ceti dimenticati o traditi, e che poi si propaga ai piani superiori, travolgendo tutto quanto incontra lungo il suo cammino: i partiti, i sindacati, le associazioni, i media. La sua meta finale è la classe politica al governo, vampiro vorace e insaziabile.
Populista – spiegano gli studiosi – è di regola il politico che si appella direttamente al popolo, scavalcando tutte le mediazioni. Congressi e assemblee gli servono solo come passerella promozionale, non come luogo di proposta, discussione, elaborazione di progetti. Il suo terreno privilegiato è il sistema maggioritario, generatore di logiche manichee: o con me o contro di me. Le sue armi sono la retorica e la possibilità di controllare/condizionare le fonti d’informazione. Ama decidere, e quindi disprezza i negoziati e la concertazione tra le parti sociali. Per raggiungere lo scopo, deve comunque disporre di mezzi finanziari ingenti. Accumulare ricchezza è quindi operazione indispensabile per poter sbaragliare la concorrenza. Non esiste un populista povero.
Le democrazie meno corazzate – malferme, prive di un’architettura solida e di un sistema fatto di pesi e contrappesi – rappresentano il terreno ideale per la fioritura del populismo. Si pensi alla Russia, che dagli zar a Putin non ha mai conosciuto un regime democratico alla Montesquieu; oppure all’Argentina, patria del peronismo, e a tanti altri Stati dell’America centrale e meridionale, dove la certezza del diritto è soltanto una nuvola passeggera.
Ma ecco la novità di questi nostri anni: populismo non è più una pianta tropicale, che prospera solo nelle repubbliche delle banane, ma un’onda intrisa di rancore che sta allagando tutto lo spazio liberal-democratico. Dal sottosuolo di un malessere dalle molte facce – disoccupazione, povertà, immigrazione, socialità declinante – è improvvisamente fuoriuscito un getto che promette di spazzar via tutti i privilegi e tutte le rendite di posizione.
L’intento non è privo di giustificazioni. Uno dei più citati è la disuguaglianza cresciuta a dismisura negli ultimi anni, unita allo strapotere delle élites: l’aristocrazia del denaro, le grandi banche, le multinazionali, le istituzioni europee e mondiali che, da stanze invisibili, muovono le leve del sistema finanziario, decretando la salvezza degli uni e la dannazione degli altri.
In precedenza, contro i poteri costituiti (l’«establishment»), si erano scagliati gli antiglobalisti, movimenti apparsi per la prima volta nel 1999 a Seattle, a margine della conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio. Al grido «Il mondo non è in vendita» e «Un altro mondo è possibile», i «no-global» occuparono la scena per alcuni anni, da Porto Alegre a Genova, muovendo guerra a tutti i vertici dei governi e delle grandi istituzioni: manifestazioni che spesso degenerarono in violenti scontri di piazza. Poi fu la volta della Borsa di New York, simbolo della finanza tentacolare, contestata dai gruppi di «Occupy Wall Street» che si erano organizzati in picchetti con tanto di tende montate nei giardini pubblici.
Ora tutto questo è sparito, oppure è stato risucchiato dalle ruote dentate della storia. Nel vuoto che i «no-global» hanno lasciato si è formata una galassia gelatinosa che gli analisti ancora non sanno come qualificare. Neo-populismo? Rivolta dal basso? In parte. Perché è difficile credere che le vecchie élites abbiano ceduto lo scettro ai movimenti nazionalistici intenti ad attizzare il fuoco del risentimento collettivo. Ampie porzioni dei ceti medio-bassi hanno sì voltato le spalle alle socialdemocrazie e all’impalcatura sociale eretta nel secondo dopoguerra, ma non è per nulla certo che i neo-gruppi dirigenti, espressione di plutocrazie e diretti da miliardari, difenderanno gli interessi di chi li ha eletti. Tutti dicono di «servire il popolo» (vecchia testata dei maoisti italiani), ma poi, alla prova dei fatti, fanno tutt’altro. Nel frattempo la galassia cresce, si allarga, assorbe l’umor nero di una società che non sa più orientarsi.