Tutta roba genuina

/ 15.07.2019
di Bruno Gambarotta

Ho deciso che era arrivato il momento di descrivere a futura memoria il carattere dei Torinesi, miei concittadini e coetanei, prima che l’avvento delle nuove generazioni ne faccia scomparire ogni traccia. Inizierò con il Torinese al ristorante dove si dedica a spaventose strippate, non tanto per riempirsi fino a scoppiare quanto per poterlo raccontare agli amici e ai colleghi. I resoconti, dove ogni inessenziale dettaglio viene adeguatamente esaltato, sono fatti sul luogo di lavoro, preferibilmente alla mensa aziendale. Il racconto non è mai ambientato in un ristorante di città, dove si va solo per pranzi di lavoro o cene di rappresentanza, dove servono microporzioni da nouvelle cuisine e dove bisogna rispettare l’etichetta e le buone maniere. Se non è nouvelle cuisine è «cucina tradizionale rivisitata», dove i trionfali piatti di un tempo sono «alleggeriti», cioè resi pallidi e insapori.

Per il Torinese il ristorante degno di essere raccontato deve essere situato in campagna e così ben nascosto che …«è inutile che vi spieghi dov’è tanto da soli non sareste mai in grado di rintracciarlo. A noi ci ha portato uno del posto che conosce mio cognato perché cinquanta anni fa hanno fatto il militare insieme. Ci hanno fatto giurare di non dire a nessuno dove si trova, altrimenti la clientela si allarga, il gestore si monta la testa e alza i prezzi. Tanto il ristorante ha quel tot di coperti e bon. Dimenticavo: se arrivi in ritardo, anche solo di un minuto, non ti danno più da mangiare, loro sono fatti così, o prendere o lasciare. Pensate che la prima volta che sono passato di lì per caso e senza sapere che quello era un ristorante perché non c’è nessuna insegna o cartello che te lo indichi, ho visto quei ruderi e ho pensato che si trattasse di una discarica. Invece ci siamo trovati benissimo.

Tanto per dirne una: quando ti portano gli antipasti, affettati misti, carne cruda, acciughe al verde, pomodoro e mozzarella, lingua, insalata di nervetti, uova sode in salsa aurora, insalata russa, insalata capricciosa, lasciano lì il piatto di portata, caso mai uno volesse fare il bis. Non basta: quando servono ai tavoli vicino al vostro qualcosa che tu non hai ordinato, fanno in modo di avanzarne un po’ e te lo portano da assaggiare. Se anche dici no grazie te lo sbattono nel piatto dicendo: “Mangi mangi, tanto quello che avanza lo diamo ai maiali”. Tutta roba genuina.

Hanno il loro orto, il frutteto, i conigli, le galline e i maiali che vengono ingrassati con gli avanzi. Le galline hanno tutte un nome, così quando te le portano in tavola bollite o arrosto te le presentano: questa era Samantha, figlia di Deborah. C’è il suo bello stagno con l’allevamento di trote e di carpe e se vuoi ti fanno pescare quelle che ti verranno cucinate dopo che le avrai uccise con una martellata in testa facendo attenzione a tenerle perché tendono a sgusciare e tanti finiscono per darsi una martellata sulla mano. I pesci però non hanno un nome perché sembrano tutti eguali, si confondono, magari tra di loro si riconoscono, ma per noi è difficile.

Finito il giro degli antipasti, ti portano una fantasia di primi, in un grande piatto diviso a spicchi, dove ogni spicchio è un tipo diverso di pasta o di risotto. Ma la cosa straordinaria che da sola merita una visita, sono i carrelli dei secondi, uno per i bolliti e uno per gli arrosti. Noi, non sapendo cosa scegliere, abbiamo preso un assaggio di tutto. A questo punto eravamo già un po’ pieni ma ci siamo ricordati che eravamo andati lì per assaggiare la specialità della casa, che sarebbe il fritto misto, così l’abbiamo ordinato, anche perché abbiamo capito che il padrone altrimenti si sarebbe offeso. Sono sei portate di sei pezzi l’uno, totale trentasei. Fanno friggere di tutto, tu di’ una cosa e loro la fanno friggere, le pantofole, i tappi delle bottiglie, il biglietto da visita, gli scontrini fiscali, i bugiardini delle medicine, tutto insomma.

Naturalmente c’è anche il suo bel carrello dei dolci e se lo chiedi ti danno un assaggio di tutto. Io mi sono tenuto e ho preso solo cinque assaggi che poi tanto assaggi non sono, a casa nostra mangiamo in quattro con uno di quegli assaggi. Alla fine, dopo il caffè, la grappa che fino a poco fa era ancora distillata dal nonno, poi gli è scoppiato l’alambicco e adesso la fanno produrre da una famiglia di albanesi, ma è tutta roba genuina, offerta col cuore».

È arrivato il momento del quiz: «Indovinate un po’ quanto abbiamo pagato a cranio?» Qualunque cifra azzardiate, anche ridicolmente bassa, il vero prezzo è sempre la metà. «Per forza, hanno tutto in casa, è un’azienda famigliare, non devono pagare stipendi». Così, nella mensa aziendale, davanti a un mesto vassoio, con un piatto di pasta scotta, una pallida fettina e una stitica mela, si conclude il racconto. Nelle stesse ore, davanti alla trattoria famigliare immersa nello sprofondo della campagna, un camion frigorifero scarica i precotti di una multinazionale della ristorazione. Tutta roba genuina.