Ottobre europeo (non necessariamente europeista) quest’anno a Lugano. Ha aperto la via il prof. Markus Krienke, docente alla Facoltà di Teologia, proponendo una mostra sui padri fondatori della linea democristiana: l’italiano Alcide De Gasperi, il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer. Gli ha fatto eco, qualche giorno dopo, Coscienza Svizzera (CS), che attraverso un seminario di studio ha concluso, almeno provvisoriamente, il ciclo sui rapporti Svizzera-UE avviato al principio dell’anno.
Tutti sappiamo quanto sia delicata la questione, specie nel nostro cantone, ormai sordo a qualsiasi segnale d’apertura, fosse solo di natura intellettuale. Come ha ricordato il presidente di CS Remigio Ratti c’è stata una fase, intorno agli anni Sessanta, in cui le discussioni sul progetto europeo erano vive, le vedute ampie, la curiosità diffusa, soprattutto tra i giovani universitari. Anche allora la Svizzera non aveva aderito al mercato comune, preferendo imboccare la via alternativa, quella che faceva capo all’Associazione di libero scambio (AELS). Scelta legittima, ma che lasciava fuori dall’orizzonte il fattore culturale e le aspirazioni ideali, per restringere il cerchio alle relazioni commerciali. Agli occhi di quella generazione la Comunità pensava in grande, l’AELS in piccolo.
Oggi l’Unione europea è sotto tiro. I partiti e i movimenti del fronte sovranista l’accusano di ogni nefandezza: incompetenza, sprechi, burocrazia asfissiante; di curarsi delle grandi banche anziché dei disoccupati; di difendere le élites e di ignorare i bisogni del popolo. Siamo, si sa, in campagna elettorale e Bruxelles rappresenta il bersaglio perfetto, il potere lontano e malvagio su cui scaricare tutte le colpe e tutte le inadempienze possibili (che invece sono in buona parte riconducibili ai singoli Stati membri).
«Sovranismo»: ecco la formula magica, da usare come un apriscatole per finalmente scardinare l’odiata UE dei funzionari. Termine recentissimo, nato oltre Atlantico, nel Canada, e poi transitato in Francia prima di annidarsi nel lessico politico italiano. Sulle prime si potrebbe pensare ad una variante aggiornata dell’antico nazionalismo imperniato sull’esaltazione della patria e la difesa dei confini. È così, ma solo in parte. Come spesso succede, i neologismi non si limitano a versare vino vecchio in otri nuovi, ma s’incaricano di registrare lo spirito del tempo, in questo specifico caso quanto sta avvenendo nel campo della politica. Il sovranismo glorifica la democrazia diretta a spese dei canali rappresentativi, la rete a spese dei giornali, i movimenti a spese dei partiti e dei sindacati, la personalità del leader a spese dei congressi. Siamo insomma di fronte al progressivo svuotamento dei luoghi tradizionali di mediazione a beneficio di una relazione diretta leader-base, resa possibile dalle tecnologie dell’informazione. Quindi niente più assemblee in cui misurarsi su obiettivi e strategie, niente più confronto tra candidati e programmi, ma la proclamazione del capo attraverso apposite piattaforme informatiche: un potere, come l’esperienza sta rivelando, non meno occulto delle tanto biasimate nomenklature partitiche.
È curioso questo paradosso, una delle cifre della nostra epoca guidata dall’immediatezza: celebrare la democrazia nel momento stesso in cui la si cala nella fossa. I meccanismi che la storia ci ha consegnato (voto, delega, elezioni, rendiconto ecc.) non sono mai stati perfetti; i partiti – e noi ticinesi ne sappiamo qualcosa – non sono mai stati quei campioni di democrazia che pretendevano di essere. Spesso, anzi, funzionavano come piccole oligarchie inamovibili, e questo accadeva in tutti i campi dello schieramento (si pensi alla figura di Guglielmo Canevascini, soprannominato non a caso «padreterno»). Ma ora con il dominio della rete si sta scivolando dalla padella alla brace, con investiture di leader, o presunti tali, nominati da forze oscure e non da persone in carne ed ossa che si guardano negli occhi.
Torniamo all’Unione e alle sue convulsioni. I sovranisti, in occasione del prossimo rinnovo del parlamento europeo (maggio 2019), promettono sfracelli. Finalmente «i popoli d’Europa» manderanno a casa la decrepita classe dirigente finora espressa dall’alleanza tra democristiani e socialisti. Anche la destra elvetica si augura una svolta del genere (e già il prossimo 25 novembre, con l’iniziativa per l’autodeterminazione, spera di indicarne la direzione di marcia). Che però l’auspicato indebolimento delle istituzioni europee torni a vantaggio della Confederazione, alleggerendo le pressioni, non è per nulla certo. Il politologo René Schwok ritiene che i sovranismi siano ben lontani dal rappresentare un fronte comune omogeneo; anzi, è molto probabile – come già succede nella gestione dei migranti – che i singoli partiti finiranno per urtarsi a vicenda, destabilizzando l’intero edificio, così com’era già successo, alla fine dell’Ottocento, con il morbo nazionalistico. I prossimi mesi saranno cruciali sia per la Svizzera che per l’Unione.