Tu chiamale, se vuoi, emozioni

/ 19.03.2018
di Bruno Gambarotta

Credevo di essere refrattario alle emozioni, così tanto che per una lunga stagione della vita mi sono sentito costretto in qualche caso a simularle per adeguarmi al comportamento di chi mi stava accanto. Fabio Fazio mi invitava talvolta come ospite nel suo programma Quelli che il calcio..., in qualità di tifoso del Torino, che in effetti è la mia squadra del cuore, fin da quando ero un bambino. Com’è noto, è possibile cambiare religione, moglie, partito, solo la squadra è per sempre. Ebbene ogni volta mi arrivavano dalla regia rabbiose sollecitazioni a manifestare smisurata gioia o profonda disperazione in caso di goal fatti o subiti, mentre la mia indole sarebbe stata quella di registrare la notizia con marmorea impassibilità. Ebbene, mi sono ricreduto quando ho scoperto in edicola l’Atlante delle emozioni umane di Tiffany Watt Smith; sono 156 in ordine alfabetico, alcune addirittura senza un corrispondente termine italiano.

L’ho divorato con trepidazione nella speranza di trovarne qualcuna nella quale potermi riconoscere e fugare il dubbio di non essere normale. La notizia che farà piacere a molti lettori è che mi sono specchiato in un discreto numero di emozioni. Ne cito qualcuna in ordine sparso. Il «Sentirsi sommerso» dalla quantità di informazioni; l’estate scorsa a Santa Margherita Ligure ho invidiato un signore che all’edicola ha chiesto di comprare «un quotidiano che per quel giorno non avesse supplementi». Vorrei essere anch’io capace di un simile gesto, così da non sentirmi in colpa quando butto nella raccolta differenziata un supplemento senza averlo letto. Pensavo che l’alluvione di carta stampata fosse un portato dei tempi moderni, ma l’autrice dell’Atlante mi smentisce citando una frase di Samuel Johnson (1709-1784): «Forse gli scrittori si moltiplicheranno fino a quando non esisteranno più i lettori». Prima ancora di lui Erasmo da Rotterdam (1466-1536): «Esiste forse un posto al mondo che sia immune da questi sciami di nuovi libri?». La «Paranoia» è l’emozione provata quando nutriamo sospetti su quali siano le reali intenzioni degli altri: non è per caso che Milano, dopo aver tentato lo scippo del Salone del Libro di Torino, vuole adesso usarci come schermo per ottenere le olimpiadi invernali? Il «Furore da imballaggio» è quando non riesco a togliere il cellophane dalle scatole dei surgelati o dai cd. La giapponese «Ijrashii» è la commozione provata nel vedere che qualcuno, partendo svantaggiato, riesce a compiere un’impresa contro ogni aspettativa. Speculare a quest’ultimo, la tedesca «Schadenfreude», la gioia maligna provocata dalla sconfitta di politici che detesto o nell’assistere alla punizione di chi fa il furbo, come vedere i controllori multare chi viaggia a sbafo sul tram.

Molti di noi praticano «L’impulso all’Accumulo», dei vecchi dischi, dei fumetti, dei quaderni di scuola, delle vecchie agende, dei verbali delle multe. Con il suo contraltare: mi decido dopo infinite sollecitazioni dei famigliari a svuotare un cassetto, salvo scoprire il giorno dopo che ho buttato via, nel furore liberatorio, le ricevute di pagamento dei contributi della colf che potevo detrarre dalle tasse. Il «Sollievo» è l’emozione provata alla vista di uno scampato pericolo, nel mio caso scoprire che non mi hanno ancora rubato la nuova bicicletta (protetta da due micidiali antifurto). La «Fiducia in se stessi» consiste nell’avere fede nelle proprie capacità, con il corollario di un’esortazione: «Fingi finché non ci riesci». Per quello che mi riguarda, compiere le seguenti azioni mentre mi sento osservato: stappare una bottiglia di vino tenendola stretta fra le ginocchia, friggere una frittata senza farla bruciare, rimettere insieme i pezzi del cellulare caduto a terra.

Ci sono emozioni che ignoravo finché non le ho trovate sull’atlante. La tailandese «Greng Jai» è la riluttanza provata nell’accettare l’offerta di aiuto da parte di qualcuno per il disagio provato, come quella volta che sono caduto lungo disteso dopo essere inciampato nella lastra sporgente del marciapiede. Si è fermato un tram, metà dei passeggeri sono scesi per farmi rialzare e l’altra metà ha fotografato la scena per metterla in rete e diffonderla nell’orbe terraqueo. Mi specchio nella finlandese «Kaukokaipuu» che, come tutti sanno, è la nostalgia per un posto in cui non siamo mai stati. La provo per San Pietroburgo leggendo i libri di Jan Brokken e le opere di Iosif Brodskij. Condivido con gli Inuit la «Iktsuarpok», letteralmente «lo scrutare le distese di ghiaccio per avvistare la slitta in arriva con gli ospiti» e per quanto mi riguarda, essendo in attesa di una telefonata, controllare di continuo se l’apparecchio funziona.

Dal Giappone prendo volentieri la «Mono no aware», la tristezza e la serenità che derivano dall’ammissione dell’inevitabilità di un cambiamento, il lutto preventivo al pensiero di perdite future. Infine la più importante, la «Gratitudine», che consiste nello riuscire sempre a «considerarsi fortunati», essere contenti di quello che già abbiamo, sconfiggendo le tentazioni consumistiche. Per farlo è sufficiente guardarsi attorno e il consiglio da seguire è compilare ogni giorno «un diario della Gratitudine».