Non c’è nulla di più divertente e spaventoso del rapporto tra Donald Trump e i giornalisti: burrasca purissima, che non accenna a finire mai. A più riprese il presidente eletto d’America se l’è presa con «i media disonesti», o i media «fake», termine ormai buono per tutto, in particolare per ogni opinione dissenziente: nei comizi elettorali, su Twitter, a ogni occasione possibile, che si trattasse del muro con il Messico (chi lo paga?) o della performance di Meryl Streep o dei documenti sulle tasse non pagate o delle donne molestate o di quelle fatte salire su un letto di una suite moscovita per inscenare performance pornografiche. La storia di Trump e dei giornalisti è materia di studio di esperti di comunicazione, mentre i commentatori alle prese con il flusso ininterrotto di dichiarazioni trumpiane provano a interrogarsi – ogni tweet presidenziale è una notizia? E se dice cose che non sono verificate come ci comportiamo: le riportiamo? Le confutiamo? Le ignoriamo? – su come gestire questa relazione faticosissima.
Ancora oggi accreditarsi agli eventi di Trump è un mestiere laborioso, i permessi arrivano a singhiozzo, l’atteggiamento presidenziale è, per usare un eufemismo, scettico, i suoi uomini (e soprattutto la sua donna della comunicazione, Kellyanne) vanno in tv a dire che le tv e i media si dovranno rimangiare i loro pregiudizi – fa eccezione la ritrovata alleanza con le tv di Rupert Murdoch. Poi ogni tanto il prossimo inquilino della Casa Bianca sbotta: siete tutti malevoli, farò senza di voi. Negli ultimi giorni s’è raggiunto un nuovo climax, anche se chiamarlo così appare improprio e temporaneo: ogni giorno capita un climax. Trump ha tenuto la sua prima conferenza stampa da quando è stato eletto presidente, proprio nel giorno in cui un sito pop come Buzzfeed, celebre per il suo mix di gattini virali e analisi politiche, aveva pubblicato un dossier «non verificato» sui rapporti tra Trump e la Russia di Vladimir Putin. Apriti cielo. Il dossier è stato redatto da un’ex spia britannica (quindi è privato, non c’entra con l’intelligence statunitense o russa) e racconta in 35 pagine gli incontri dei trumpiani e dei putiniani, le visite di Trump – con l’ormai celebre «golden shower» di prostitute russe sul letto di una suite in cui avevano dormito, tempo prima, gli Obama: sfregio al predecessore, soprattutto alla moglie – e ipotizza che i russi abbiano a disposizione materiale compromettente su Trump.
Gli interessati smentiscono, dicono che si tratta di una caccia alle streghe permanente, urlano e sbraitano ogni genere di accusa contro «gli avversari corrotti», e soprattutto se la prendono con i giornalisti. Quelli di Buzzfeed sono stati definiti «pattumiera», ma anche al reporter della Cnn – quel colosso di Jim Acosta – che chiedeva se gli incontri in Russia c’erano stati davvero Trump ha urlato: «You are fake news!», e non ha risposto alle domande (il portavoce di Trump, Sean Spicer, poi ha detto ad Acosta: non provare ancora a fare domande, ti cacciamo fuori).
A ogni scontro corrisponde una buona dose di mansuetudine nei confronti di quei media che, di volta e in volta, non sono scesi nella pattumiera: le parti cambiano ogni volta, si sa che Trump sa essere cordialissimo e brutalissimo nel giro di ore (chiedere al «New York Times» per credere).
Sul ruolo di Buzzfeed in questa storia si parlerà a lungo: il report su Trump circolava già da tempo, molti lo avevano visionato e ignorato, anche lo stesso presidente eletto e Barack Obama lo aveva visto, ma soltanto Buzzfeed lo ha interamente pubblicato, mentre la Cnn ne aveva dato conto in modo abbastanza circostanziato, senza però tutti i dettagli. È giusto che il pubblico sappia quel che si legge nei palazzi dei poteri? È l’ultima domanda che tormenta i commentatori, assieme a tutte le altre, che vanno a formare l’esasperazione totale dei giornalisti nei confronti di questo strano presidente. A questo si somma un problema più grande, che riguarda la circolazione indefessa di «fake news», il dossieraggio permanente nei confronti dei politici . E di questo Trump, che diceva che Obama non era nato in America e che Hillary era pedofila, un po’ è responsabile.
Una regola andrà trovata, non si sa bene quale sarà, ma serve cercarla ogni volta, ponderando gli umori e il narcisismo di Trump, che rischia di essere un lavoro a sé, e che non c’entra nemmeno molto con il giornalismo.