Trump e i «nemici del popolo»

/ 12.11.2018
di Paola Peduzzi

Il voto di metà mandato in America ha confermato alcune cose che sapevamo già: i democratici sono ancora inattrezzati per dare una spallata a Donald Trump e Donald Trump è un «teflon president», pare indistruttibile. È passato in mezzo a scandali e polemiche che avrebbero distrutto chiunque, ma è rimasto solido, con una strategia banale ma potente: chi mi critica è un nemico, non badate alle sfumature, è noi contro di loro, e ogni arma è accettata. Il rapporto con la stampa e con i giornalisti è parte consistente di questa strategia, e quando pensiamo di aver visto tutto, di aver capito le dinamiche, accade qualcosa che non avevamo previsto.

In questa campagna elettorale abbiamo imparato che Fox News è diventata la tv di Trump. È sempre stato così? No. È naturalmente una televisione vicina al mondo conservatore, ha guidato le trasformazioni di questa parte della politica e del suo elettorato con grande determinazione: i Tea Parties e la loro rinascita, per dire, sono stati imposti da Fox News. L’arrivo di Trump però ha preso la rete alla sprovvista: Rupert Murdoch, che è il padrone, era molto scettico (eufemismo) nei confronti di questo candidato atipico, improvvisato, ingombrantissimo. Poi il loro rapporto si è ricucito, Murdoch e anche il Partito repubblicano hanno imparato in fretta un metodo di collaborazione, Trump è pur sempre il presidente che ha vinto, che resiste, che fa un’opposizione brutale ai democratici, è un testimonial eccellente. Ma quel minimo di indipendenza che c’era sempre stato – perché dentro a Fox erano convinti che ad avvicinarsi troppo a Trump, ad appiattirsi su di lui, lui se li sarebbe, come dire, mangiati: il populismo è cannibale – è saltato. Al punto che anche commentatori conservatori trumpiani hanno iniziato a sentirsi a disagio nei confronti della loro ammiraglia, che dal punto di vista del pubblico e del successo è a livello da record.

La tv di Trump è allo stesso tempo la prima fonte di informazione del presidente e la sua grancassa principale, e il cortocircuito è evidente: si crea un circolo di idee che non sono necessariamente confermate o reali, ma che sono il combustibile imprescindibile delle continue fiammate di Trump. Il caso della carovana dei migranti in arrivo dal Centro America al confine con il Messico è paradigmatico: come si sa, questa marcia di uomini, donne e bambini è ancora a circa 800 chilometri dal confine, ha un’alta probabilità di dispersione (per stanchezza, perché le autorità messicane fanno dei controlli, perché la strada è lunga) e soprattutto non è un esercito di immigrati illegali. Sono richiedenti asilo, e sta all’America accogliere o respingere le richieste. Trump l’ha però trasformata in un’invasione e si è messo in assetto da emergenza: soldati al confine, lotta ai finanziatori (i democratici, e il solito mostro, George Soros), allarmismo continuo. La teoria dell’emergenza ha preso il sopravvento su tutto, e la Fox ha mandato degli inviati vicino al confine, appostati come degli investigatori, pronti a cogliere sul fatto degli illegali (non sono illegali!) che sono lontani centinaia di chilometri. Questa carovana ha dominato la campagna elettorale, per esplicita volontà del presidente, e i giornali, anche quelli critici, hanno dedicato alla questione decine di articoli (come sto facendo io adesso).

La stessa cosa è successa all’indomani del voto di metà mandato. In conferenza stampa per celebrare «la vittoria straordinaria» (che non è straordinaria, ma ancora: il presidente decide di cosa si parla e di come se ne parla) Trump ha litigato con il corrispondente alla Casa Bianca della Cnn, Jim Acosta, un altro «mostro» del trumpismo: agli eventi dei repubblicani, Acosta è sui cartelloni spesso circondato da un mirino, e viene insultato. La stampa «nemica del popolo», grande classico di questa Amministrazione, è come una carovana permanente, è il modo con cui questo presidente evita di parlare dei problemi veri, evita di fare ogni tanto qualche riflessione anche critica su se stesso: voi siete i nemici, so già che cosa avete da dire, ma imparerete a tacere. Così in un attimo la storia non è più il ritorno dei democratici alla Camera o il licenziamento del ministro della Giustizia o il fatto che ora il Congresso potrà chiedere conto (almeno) della famosa denuncia dei redditi che il presidente si ostina a nascondere. La storia è che i giornalisti si ritrovano a dover difendere il loro lavoro, a dover ricordare che a furia di essere chiamati «nemici del popolo» ci sarà bisogno di una scorta, a pensosi commenti sullo stato del pluralismo mediatico e sulla democrazia americana. Trump sfodera un’altra arma di distrazione di massa, come la carovana. È così che si è creato il suo scudo, che è forte, accidenti se è forte.